C’è una parola che, più di ogni altra, sta definendo la vertiginosa trasformazione della Germania. Non è Zeitenwende, la “svolta epocale” annunciata dall’ex Cancelliere Scholz. E non è nemmeno Kriegstüchtigkeit, la controversa “capacità bellica” che il Ministro della Difesa vuole raggiungere. La parola è molto più semplice, quasi banale, ed è proprio per questo che suona così agghiacciante: “sostituire”.
Ersetzt werden. È il termine che Patrick Sensburg, presidente dell’Associazione dei riservisti tedeschi ed esponente della CDU, ha usato per descrivere la necessità di rimpiazzare i “mille soldati al giorno, tra morti e feriti gravi” che, secondo i calcoli della Bundeswehr, potrebbero essere persi in un conflitto ad alta intensità. La notizia, riportata da testate autorevoli come Die Welt, ha colpito l’opinione pubblica non tanto per il numero, quanto per il verbo. Non si parla di un pezzo di ricambio per un’automobile o di una lampadina fulminata. Si parla di esseri umani. Di soldati.
Questa singola parola, ersetzt werden, ha agito come un detonatore, squarciando il velo di un dibattito che va ben oltre le strategie militari. Ha messo a nudo l’anima di una nazione alle prese con un cambiamento epocale, costretta a confrontarsi con una domanda tanto semplice quanto terrificante: come si prepara un Paese alla guerra senza perdere la propria umanità?

Cos’è la “Zeitenwende”? Come la Germania sta riscrivendo la sua politica di difesa
Per capire la portata di questa polemica, dobbiamo fare un passo indietro, al 27 febbraio 2022. A tre giorni dall’invasione russa dell’Ucraina, il Cancelliere Olaf Scholz sale sul podio del Bundestag e pronuncia una parola che entrerà nei libri di storia: Zeitenwende, una “svolta epocale”. Non è solo retorica. È l’annuncio di un cambio di paradigma radicale per la politica estera e di sicurezza tedesca.
La Zeitenwende si è tradotta in due azioni immediate e potentissime:
- La creazione di un fondo speciale da 100 miliardi di euro per modernizzare le forze armate, la Bundeswehr.
- L’impegno a raggiungere e superare l’obiettivo NATO di destinare almeno il 2% del PIL alle spese per la difesa.
Ma la vera svolta non è solo economica. È culturale e psicologica. Per decenni, la Germania ha praticato una politica di moderazione, affidandosi alla diplomazia, al commercio (Wandel durch Handel, cambiamento attraverso il commercio) e a una postura militare prettamente difensiva. L’esercito era visto più come uno strumento per missioni di pace all’estero che come una forza pronta a difendere i confini nazionali ed europei. Oggi, il Ministro della Difesa Boris Pistorius parla apertamente di Kriegstüchtigkeit, un termine complesso che si può tradurre come “capacità bellica” o “idoneità alla guerra”. Una parola che, fino a pochi anni fa, sarebbe stata un tabù nel dibattito pubblico tedesco.

“Mille soldati da sostituire al giorno”: perché una sola parola ha scosso la Germania?
È in questo contesto di riarmo febbrile che si inserisce la dichiarazione di Patrick Sensburg. La sua analisi, per quanto brutale, riflette una logica militare ineccepibile: un esercito in combattimento subisce perdite e ha bisogno di rimpiazzi per mantenere la sua efficacia operativa. Ma il problema, hanno sottolineato molti osservatori, non è la logica militare in sé, quanto la sua trasposizione diretta nel linguaggio politico e civile.
La parola “sostituire” applicata a vite umane ha un effetto spersonalizzante. Trasforma il soldato, con la sua storia, i suoi affetti e le sue paure, in un’unità funzionale, un “asset” strategico. È un termine che appartiene al lessico della logistica, non a quello di una società democratica che pone il valore della vita umana al di sopra di tutto. La reazione dell’opinione pubblica non è stata tanto contro la previsione numerica delle perdite, ma contro la freddezza tecnocratica con cui questa prospettiva è stata presentata.
Questa freddezza linguistica è un sintomo di quella che i sociologi chiamano “distanza emotiva”, un meccanismo psicologico necessario per chi pianifica la guerra, ma pericoloso quando diventa la norma nel discorso pubblico. Se si inizia a parlare di figli, figlie, partner e amici come di “materiale umano” da rimpiazzare, il passo verso l’accettazione della guerra come uno strumento politico normale, e non come un’estrema e tragica risorsa, si fa più breve.

Il ritorno della leva obbligatoria in Germania: un’ipotesi sempre più concreta?
La questione dei “sostituti” è intrinsecamente legata a un altro fantasma che si aggira per la Germania: il ritorno del servizio militare. La leva obbligatoria (Wehrpflicht) è stata sospesa nel 2011, trasformando la Bundeswehr in un esercito di professionisti. Oggi, però, i numeri sono impietosi. Con circa 181.000 soldati attivi, l’esercito tedesco è lontano dall’obiettivo di 203.000 entro il 2031, e soprattutto è considerato insufficiente per uno scenario di difesa collettiva della NATO.
Il dibattito è acceso. Da un lato, i sostenitori, come il Ministro Pistorius, propongono modelli ispirati a quello svedese, con una coscrizione selettiva basata su test e volontarietà, per creare un bacino più ampio di riservisti addestrati. L’argomento è che un esercito professionale non basta per la magnitudine delle sfide attuali. Dall’altro, gli oppositori sollevano questioni di libertà individuale, costi enormi e dubbi sull’efficacia di un esercito di coscritti nell’era della guerra moderna e tecnologica.
La discussione sulla leva non è più un esercizio teorico. È la conseguenza diretta della nuova postura strategica: se la Germania deve essere “pronta alla guerra”, ha bisogno di soldati. Molti di più di quelli che ha oggi. E la domanda che serpeggia nella società è profonda: siamo disposti a chiedere ai nostri giovani di tornare a indossare l’uniforme, non per missioni di pace in terre lontane, ma per la potenziale difesa del suolo europeo?

Tra fondi speciali e problemi strutturali: qual è la reale condizione della Bundeswehr oggi?
Il fondo da 100 miliardi di euro ha certamente dato una scossa, ma non può risolvere problemi decennali da un giorno all’altro. Per anni, la Bundeswehr è stata oggetto di critiche e persino di ironia per le sue carenze. Si parlava di carri armati non funzionanti, aerei a terra per mancanza di pezzi di ricambio, soldati costretti ad addestrarsi senza l’equipaggiamento adeguato.
Oggi, gli investimenti stanno arrivando. Si acquistano caccia F-35, elicotteri pesanti, nuovi veicoli corazzati. Ma l’inerzia burocratica è forte e la modernizzazione richiederà tempo. La vera sfida, dicono gli esperti, non è solo comprare nuovo hardware, ma cambiare la mentalità, snellire le procedure e rendere la carriera militare nuovamente attrattiva per le nuove generazioni.
La “capacità bellica” non dipende solo dal numero di carri armati, ma anche dalla logistica, dalla cyber-security, dalla coesione delle truppe e, soprattutto, dal sostegno politico e sociale. La Germania sta scoprendo che ricostruire uno strumento militare credibile è un’impresa titanica che va oltre il semplice stanziamento di fondi.

Dal “mai più guerra” alla “capacità bellica”: il profondo dilemma dell’identità tedesca
Qui arriviamo al cuore del problema. Il riarmo tedesco non è solo una questione tecnica o strategica; è una crisi d’identità. Per oltre 70 anni, la Germania ha costruito la sua reputazione internazionale sul potere economico e sulla cautela militare. Il pacifismo non era solo una politica, ma una componente fondamentale del DNA nazionale, una lezione appresa dalle catastrofi del XX secolo.
Oggi, questa identità viene messa in discussione. La leadership tedesca sente la pressione degli alleati, in primis degli Stati Uniti, e la responsabilità storica di essere il Paese più grande e ricco dell’Unione Europea. Essere una “potenza civile” non sembra più sufficiente in un mondo dove la forza militare è tornata a essere un fattore determinante.
Ma come si concilia il nuovo imperativo della Kriegstüchtigkeit con la cultura della memoria? Questa è la domanda che lacera il dibattito tedesco. Il rischio, avvertono le voci critiche, è che la necessaria preparazione alla difesa scivoli in una nuova forma di militarismo, dimenticando le lezioni del passato. Il dibattito non è tra “pacifisti ingenui” e “realisti pragmatici”; è una ricerca complessa di un nuovo equilibrio, in cui la Germania possa essere un fornitore di sicurezza affidabile senza rinnegare i valori su cui ha costruito la sua democrazia.

Oltre i numeri e le strategie: quale futuro per la sicurezza europea e il ruolo della Germania?
La polemica sulla parola “sostituire” è molto più di un incidente di comunicazione. È una finestra sulla vertigine che la Germania, e con essa l’intera Europa, sta vivendo. Ci costringe a porci domande scomode che abbiamo preferito ignorare per troppo tempo.
Cosa significa davvero “difesa europea”? Siamo pronti, come cittadini, non solo a investire di più in armamenti, ma anche ad accettare i rischi e i costi umani che una politica di deterrenza credibile comporta? E come possiamo assicurarci che il linguaggio della preparazione alla difesa non diventi, esso stesso, un carburante che alimenta la spirale del conflitto?
La Germania è al centro di questa tempesta. Le sue scelte avranno conseguenze profonde per il futuro del continente. La strada che sceglierà – tra il ricordo del suo passato e le dure esigenze del presente – non definirà solo il suo ruolo nel mondo, ma anche il tipo di Europa in cui vivremo domani. La discussione è appena iniziata, ed è una discussione che riguarda tutti noi.

