mercantilismo germania

C’era una volta, e c’è ancora, un gigante economico nel cuore dell’Europa: la Germania. Per anni, i suoi surplus commerciali stratosferici sono stati sbandierati come il simbolo di un’efficienza quasi mitologica, di una laboriosità esemplare, di un modello da imitare. Una locomotiva che traina, si diceva. Ma se questa narrazione edulcorata, così rassicurante per alcuni e così frustrante per altri, nascondesse una realtà ben più complessa e, per certi versi, amara? E se la critica al surplus commerciale tedesco, spesso sussurrata o liquidata come invidia, avesse fondamenta ben più solide di quanto si voglia ammettere?

L’economista tedesco Heiner Flassbeck, voce notoriamente controcorrente e mai timorosa di scoperchiare vasi di Pandora, ci offre da tempo una lettura radicalmente diversa, quasi eretica per l’establishment. Il suo recente articolo, che analizza le reazioni tedesche alle rinnovate pressioni americane sui famigerati surplus, è un pugno nello stomaco all’autocompiacimento e ai “depistaggi” mediatici e accademici. Preparatevi, perché stiamo per addentrarci in un’analisi che smonta pezzo per pezzo il castello di carte della “virtù tedesca”, rivelando meccanismi meno nobili e più controversi.

heiner flassbeck
Heiner Flassbeck

Quando la Narrazione Ufficiale Inciampa: I “Fumogeni” Tedeschi

Flassbeck non usa mezzi termini. Di fronte alle critiche, soprattutto quelle provenienti da oltreoceano, la Germania, invece di affrontare seriamente la questione, sembra preferire, secondo l’economista, l’arte del “Nebelwerfer”, il lanciafumogeni. L’obiettivo? Confondere le acque, deviare l’attenzione, evitare a tutti i costi di guardare in faccia la vera natura del problema.

Prendiamo, ad esempio, il modo in cui alcuni commentatori, come Ingo Nathusius della Tagesschau citato da Flassbeck, cercano di minimizzare. Affermare che una bilancia commerciale negativa per gli USA sia “segno di particolare benessere” perché “possono permettersi di comprare merci da tutto il mondo” è, per Flassbeck, un’argomentazione che definire assurda è un eufemismo. È come dire che chi si indebita fino al collo per ostentare lusso sia il vero ricco. Magari, suggerisce sarcasticamente Flassbeck, gli Stati Uniti starebbero ancora meglio senza quei deficit, un’idea che, per inciso, è proprio quella di chi li critica. E ancora più audace sarebbe, nota l’economista, chiedersi se un paese con enormi deficit commerciali non potrebbe avere la stessa crescita con meno debito pubblico se solo quei deficit esteri non ci fossero.

Ma il “capolavoro” del depistaggio, secondo Flassbeck, arriva da figure accademiche di spicco come Marcel Fratzscher, presidente del DIW (Istituto Tedesco per la Ricerca Economica). Attribuire i surplus tedeschi a una “eccessiva regolamentazione” che ostacolerebbe le importazioni è, per Flassbeck, un’idea “originale ma completamente campata in aria”. Un presidente di un simile istituto, ironizza, dovrebbe avere collaboratori capaci di fornirgli un minimo di “empiria”. Infatti, i dati mostrano che anche le importazioni tedesche sono cresciute significativamente nel periodo in cui i surplus si sono formati, nei primi anni 2000. Il punto, sottolinea Flassbeck, è che le esportazioni sono cresciute molto di più.

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La Vera Radice del “Miracolo” Tedesco: L’Agenda 2010 e la Svalutazione Interna

Allora, se non è l’eccesso di regolamentazione né una qualche imperscrutabile magia economica, qual è la vera causa di questa improvvisa e massiccia esplosione della competitività tedesca? Flassbeck non ha dubbi, e la sua risposta è tanto semplice quanto scomoda: il dumping salariale.

costo unitario del lavoro
Costo unitario del lavoro

Qui entriamo nel cuore della critica al surplus commerciale tedesco portata avanti da Flassbeck. La chiave di volta, secondo la sua analisi, risiede nelle riforme dell’Agenda 2010, implementate dal governo socialdemocratico-verde di Gerhard Schröder. Queste riforme, nate con l’intento dichiarato di rendere più flessibile il mercato del lavoro e ridurre la disoccupazione, hanno avuto un effetto collaterale devastante sulla dinamica salariale. Hanno messo una pressione enorme sui salari e sui sindacati, portando a una moderazione salariale che, nei fatti, è stata una vera e propria compressione.

Il risultato? I costi unitari del lavoro in Germania sono cresciuti molto, molto meno rispetto a quelli dei suoi partner nell’Unione Monetaria Europea. Pensateci un attimo: all’interno di un’area valutaria comune, dove non si può più svalutare la propria moneta per guadagnare competitività, la Germania ha di fatto operato una “svalutazione reale interna”. Ha reso il costo del suo lavoro artificialmente più basso rispetto a quello dei vicini. Questo, sottolinea Flassbeck con forza, è andato fundamentalmente contro le regole e lo spirito dell’Unione Monetaria Europea, che si basa(va) sull’idea di un progressivo allineamento delle condizioni economiche, non sulla creazione di vantaggi competitivi unilaterali attraverso la compressione dei salari.

Questo vantaggio di costo, che Flassbeck non esita a definire “ingiustificato”, è stato il carburante che ha alimentato la macchina esportatrice tedesca per quasi due decenni. Non si tratta, quindi, di una superiore “bravura” o “efficienza” intrinseca, ma di una scelta politica deliberata con conseguenze profonde, sia interne (per i lavoratori tedeschi, che hanno visto i loro salari stagnare per anni) sia, soprattutto, esterne.

Export e saldo delle partite correnti in percentuale del PIL Germania 200-2025

Un indicatore chiarissimo di questa dinamica, spesso citato da Flassbeck, è la quota di export tedesca. Contemporaneamente all’esplosione del surplus della bilancia dei pagamenti, la quota delle esportazioni tedesche sul totale mondiale o europeo è cresciuta in modo impressionante rispetto agli altri paesi. Due fenomeni così marcati e concomitanti – un enorme surplus e un aumento così netto della quota di export – devono avere, logicamente, una causa comune e potente. E questa causa, ribadisce Flassbeck, non ha nulla a che vedere con la regolamentazione delle importazioni, ma tutto a che fare con le condizioni che hanno favorito le esportazioni.

mercantilismo tedesco

L’Ipocrisia di un Sistema e le Resistenze al Cambiamento

Perché tanta resistenza ad ammettere questa realtà, che Flassbeck, e non solo lui, denuncia da anni? Le motivazioni, secondo l’economista, sono profondamente politiche e nazionali. Si vuole difendere la “posizione tedesca” a tutti i costi, senza badare alle perdite altrui o alla coerenza economica. C’è poi un fattore quasi psicologico: non si vuole dare ragione a critici esterni, come Donald Trump, che, pur con i suoi modi e le sue motivazioni, ha toccato un nervo scoperto e dolorosamente vero per la Germania.

Questa reazione, scrive Flassbeck, rivela una concezione del giornalismo e della scienza economica che, in certi ambienti tedeschi, appare “puramente politica o nazional-politica”. E quando sono coinvolte persone pagate per fare ricerca scientifica, la cosa è ancora più grave. Si assiste a una distorsione della realtà per difendere un modello economico che ha prodotto benefici per alcuni (le imprese esportatrici, i detentori di capitale) ma ha creato enormi squilibri per altri, sia all’interno che all’esterno dei confini tedeschi.

Percentuale di export in rapporto al pil

Immaginate la scena europea nei primi anni 2000. Paesi come l’Italia, la Spagna, la Francia, la Grecia, si trovano a competere con una Germania che, grazie alla compressione salariale, offre beni e servizi a prezzi relativi sempre più bassi. Senza la possibilità di svalutare la propria moneta, questi paesi hanno visto le loro industrie perdere quote di mercato, le loro bilance commerciali peggiorare e i loro debiti crescere. Il surplus tedesco non è nato nel vuoto; è lo specchio dei deficit altrui all’interno dell’Eurozona. È matematica, non opinione.

heiner flassbeck

Perché una Diagnosi Corretta è Cruciale (anche per l’Italia)

La veemenza di Flassbeck non è fine a se stessa. Il suo monito è chiaro e terribilmente attuale: “Non si può curare una malattia sulla base di una diagnosi sbagliata”. Se la Germania continua a raccontarsi la favola della sua superiore virtù, ignorando le vere cause dei suoi squilibri (perché un surplus eccessivo e persistente è uno squilibrio, tanto quanto un deficit), non sarà mai in grado di contribuire a una soluzione sostenibile per l’Europa.

Continuare a insistere sulla “disciplina di bilancio” e sulle “riforme strutturali” (spesso intese come ulteriore compressione salariale) per i paesi in deficit, mentre si ignora la causa primaria dello squilibrio generato dalla politica salariale tedesca, è come chiedere a un pugile di combattere con una mano legata dietro la schiena.

Per l’Italia, questa critica al surplus commerciale tedesco è particolarmente rilevante. Il nostro paese è stato uno dei principali “perdenti” della dinamica competitiva innescata dalla Germania. Comprendere a fondo i meccanismi descritti da Flassbeck non significa cercare alibi per i nostri problemi interni, che pure esistono e sono significativi. Significa, piuttosto, avere un quadro più completo delle forze che hanno plasmato l’economia europea negli ultimi vent’anni e capire che non tutte le difficoltà sono auto-inflitte.

La Germania si è “autocelebrata per i successi dell’Agenda politica per più di 20 anni”, scrive Flassbeck. Questo è “umanamente comprensibile, ma politicamente fatale”. Fatale perché impedisce una reale cooperazione europea basata su equità e sostenibilità reciproca. Impedisce di affrontare le vere cause degli squilibri che minano la stabilità dell’Eurozona.

Marcel Fratzcher

Oltre i Fumogeni: Per un Dibattito Onesto e Coraggioso

L’analisi di Heiner Flassbeck è un invito a togliere il velo dell’ipocrisia. È un appello a un dibattito economico che sia veramente scientifico e non ancillare a interessi nazionali di corto respiro. La critica al surplus commerciale tedesco non è un attacco alla Germania o al popolo tedesco, ma un’analisi rigorosa di politiche economiche che hanno avuto conseguenze profonde e spesso negative per i partner europei.

Forse, come suggerisce tra le righe lo stesso Flassbeck, se la Germania avesse permesso ai suoi salari di crescere in linea con la sua produttività e con l’inflazione target della BCE, i suoi surplus sarebbero stati meno imponenti, i suoi consumi interni più robusti, e gli squilibri nell’Eurozona meno acuti. Magari la stessa Germania, con una domanda interna più forte, avrebbe importato di più dai suoi vicini, contribuendo a una crescita più equilibrata per tutti.

È tempo che la discussione sui surplus tedeschi esca dalle nebbie dell’autocelebrazione e delle giustificazioni di comodo. È tempo di guardare ai dati, alle dinamiche salariali, ai costi unitari del lavoro, e di trarre le conclusioni necessarie, per quanto scomode possano essere. Solo così si potrà sperare di costruire un’Europa economicamente più giusta, stabile e prospera per tutti i suoi membri, e non solo per alcuni. La lucidità e il coraggio intellettuale di voci come quella di Heiner Flassbeck sono più che mai necessari per illuminare questo percorso. E forse, finalmente, per curare la malattia con la diagnosi giusta.


2 commenti a “Surplus Tedesco: La Critica Che Nessuno Vuole Sentire – Verità Nascoste e Dumping Salariale”
  1. In realtà la posizione di Flassbeck su questo tema non è per niente eretica. Anzi è la posizione mainstream tra gli scienziati… al di fuori dei vari governi suceddutisi qui negli ultimi cinquant’anni 😉

    1. L’export e gli avanzi commerciali con l’estero in Germania sono sacri, guai a criticarli sui media mainstream, al di fuori dei circuiti della stampa alternativa, quella che tu definisci filo-putiniana, è davvero difficile pensare di trovare sulla SZ, sulla FAZ o su HB una critica aperta agli avanzi commerciali tedeschi…just for the record

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