Avete presente quelle frasi che ti colpiscono e ti fanno riflettere? Una di queste, che è rimbalzata un po’ tra gli addetti ai lavori, l’ha scritta l’economista Patrick Kaczmarczyk. Il giorno in cui CDU/CSU e SPD hanno annunciato di voler mettere mano al freno al debito per le spese legate alla sicurezza, lui ha twittato (o meglio, postato su X): “Quando si tratta di armi, la MMT diventa mainstream economico”. Una stilettata sarcastica, che coglie nel segno una certa ipocrisia. Ma andiamo con ordine, perché dietro questa frase c’è un dibattito enorme e cruciale per il futuro della Germania e non solo.

La spesa militare della Germania è tornata prepotentemente al centro della discussione pubblica e politica. Non parliamo solo di dibattiti in Parlamento o nelle stanze dei bottoni, ma di qualcosa che tocca le corde dell’economia, della società e, diciamocelo, anche un po’ della nostra percezione di sicurezza e priorità. L’occasione per riparlarne, e in modo così acceso, l’ha data una mossa che a molti è sembrata quasi un colpo di mano: la riforma del cosiddetto “freno al debito” (Schuldenbremse).
Per chi non è addentro ai tecnicismi della finanza pubblica tedesca, il freno al debito è un meccanismo costituzionale piuttosto rigido che limita la capacità dello Stato di indebitarsi. L’idea, in soldoni, è mantenere i bilanci in sostanziale pareggio. Bene, con una mossa che ha richiesto la maggioranza dei due terzi in Parlamento – quella necessaria per cambiare la Costituzione – questo freno è stato, per così dire, allentato. Ma non per aumentare gli investimenti in scuole, infrastrutture o transizione ecologica, temi pure caldissimi e prioritari. No, l’allentamento è arrivato specificamente per le spese di sicurezza, o più francamente, per le spese militari.
E qui casca l’asino, o forse si rivela un gioco di prestigio. Perché, come acutamente osservato nell’articolo “Werden Panzer und Kanonen zum Wirtschaftsmotor?” (“I carri armati e i cannoni diventano un motore economico?”) di Malte Kornfeld, economista e giornalista, pubblicato su Makroskop.eu – un pezzo che vi consiglio di leggere e su cui si basa molta di questa nostra chiacchierata – questa riforma non ha messo un tetto alla spesa militare finanziabile col debito, ma una sorta di soglia inferiore. In pratica, tutte le spese per la sicurezza che superano l’uno per cento del PIL nominale vengono escluse dal calcolo del freno al debito. È come dire: “Al di sotto di questa soglia siamo attenti, ma sopra… beh, sopra abbiamo carta bianca”. Una mossa che, secondo l’autore su Makroskop.eu, suona quasi come un “Persilschein” (una sorta di lasciapassare) per un riarmo finanziato dal debito.

Ed è qui che torna la provocazione di Kaczmarczyk e il riferimento alla Modern Monetary Theory (MMT). I critici della MMT spesso la dipingono come una teoria che giustifica la “stampa di denaro” illimitata e un debito pubblico senza freni. La MMT, nella sua accezione più diffusa e meno caricaturale, in realtà, pone l’accento sulla capacità dello Stato di creare moneta e sulla necessità di utilizzare questa capacità per garantire la piena occupazione e la stabilità dei prezzi, guardando alla disponibilità di risorse reali, non a limiti monetari autoimposti. Ma la battuta di Kaczmarczyk, ripresa da Kornfeld, è tagliente: sono proprio coloro che solitamente demonizzano la spesa pubblica e il debito a farsi paladini dell’indebitamento quando si tratta di armamenti. È un po’ come dire: “Ah, il debito fa male, distrugge il futuro dei nostri figli! A meno che… a meno che non serva per comprare cannoni. Allora va benissimo!”. Questa contraddizione, questa sorta di “MMT per le armi”, è uno degli insight più provocatori emersi dalla lettura.
Ma al di là delle battute e delle provocazioni, c’è una questione economica profonda. La spesa militare in Germania, e in generale, come si incastra nel tessuto economico? Come viene considerata? E soprattutto, può davvero rappresentare un volano per la crescita, come implicitamente suggerito da chi ne promuove un aumento massiccio?

Qui entriamo in un campo dove la contabilità nazionale si scontra con la realtà della produzione e del valore. Fino al 2014, per intenderci, la maggior parte delle spese militari – escluse le strutture a uso civile come gli ospedali militari – erano classificate come beni di consumo. Perché? Perché non contribuivano alla formazione di capitale produttivo per l’economia civile. Un carro armato, diciamocelo, non serve a produrre pane, né a costruire case, né a trasportare merci per il mercato civile. È uno strumento di distruzione o deterrenza.
Nel 2014, però, con una revisione del Sistema Europeo dei Conti Nazionali (SEC), le cose sono cambiate. I sistemi d’arma hanno iniziato a essere considerati “investimenti”. La giustificazione? Vengono utilizzati “continuativamente e a lungo termine per fornire servizi di sicurezza”. È un criterio che, come fa notare Malte Kornfeld su Makroskop.eu, estende il concetto di investimento oltre il suo significato economico tradizionale, che riguarda la creazione di beni capitali che aumentano la capacità produttiva futura. Si introduce un concetto di “beneficio geopolitico”. In pratica, se un sistema d’arma garantisce sicurezza (o almeno così si spera), allora è un investimento.

Ma è qui che l’analisi diventa particolarmente interessante e, a tratti, scomoda per i sostenitori del riarmo come motore economico. Nonostante la riclassificazione contabile, il carattere intrinsecamente improduttivo del materiale militare rimane. Cosa significa “improduttivo” in questo contesto? Non significa che non abbia uno scopo (la difesa, la deterrenza, o purtroppo, l’attacco). Significa che, dal punto di vista del processo di riproduzione economica, un carro armato, un missile, o anche l’attività “umana” dei soldati in combattimento, non creano nuovo valore economico nello stesso modo in cui lo fa una fabbrica, un campo coltivato o un ospedale. Non entrano nel ciclo produttivo per generare altri beni o servizi scambiabili sul mercato civile. Non sono né mezzi di produzione (come un macchinario per fare bulloni) né “beni salario” (quei beni che servono a sostenere la forza lavoro).
L’economista Günther Grunert, citato nell’articolo di Kornfeld, lo spiega chiaramente: i beni improduttivi servono a “mantenere e proteggere il sistema politico-economico generale”, ma non si riproducono economicamente. Un panzer non ara un campo, non produce merci, non trasporta beni civili. Munizioni, armi o la forza lavoro dei soldati servono alla guerra, senza che da ciò scaturisca un beneficio economico aggiuntivo diretto in termini di produzione di valore per l’economia civile.
Questa distinzione è cruciale quando si valutano gli effetti di crescita della spesa militare in Germania. Se il settore “improduttivo” (quello militare, ma anche, in parte, altri settori che non producono beni e servizi di mercato) cresce, lo fa a scapito del settore “riproduttivo”. È quest’ultimo che genera la ricchezza su cui si basa l’intera economia, compresa la capacità di sostenere un settore improduttivo. In altre parole, la crescita del settore militare è limitata dalla crescita del settore civile produttivo.

C’è una frase di Friedrich Merz, ripresa nell’articolo di Makroskop.eu, che involontariamente (o forse no?) sembra confermare questa visione. Ha detto che le spese aggiuntive per la difesa sono “sostenibili” solo “se la nostra economia nazionale torna su un percorso di crescita stabile nel più breve tempo possibile”. E per fare questo, ha aggiunto, servono investimenti rapidi e sostenibili nelle infrastrutture, oltre a un miglioramento delle condizioni competitive. In pratica, ha ammesso che il riarmo ha bisogno di un’economia civile forte per essere finanziato e sostenuto. Non è il riarmo a trainare l’economia, ma il contrario.
E le evidenze empiriche sembrano confermare questa prospettiva. Studi citati nell’articolo di Malte Kornfeld, tra cui una ricerca della RAND Corporation (un think tank che non si può certo accusare di anti-militarismo, visto che consiglia le forze armate USA!), mettono a confronto gli effetti sulla crescita delle spese per la difesa e degli investimenti in infrastrutture. I risultati? Il moltiplicatore fiscale della spesa militare – ovvero quanto aumenta il PIL per ogni dollaro speso in difesa – si situa tra 0,6 e 1,2. Nelle ricerche più recenti, tende a essere nella parte bassa di questo intervallo. Per contro, il moltiplicatore fiscale degli investimenti in infrastrutture nei paesi OECD è costantemente superiore a 1,5.
La conclusione della RAND Corporation, citata nel testo, è netta: dare priorità alla spesa militare rispetto agli investimenti in infrastrutture può minare la crescita economica e, di conseguenza, limitare le stesse risorse disponibili per la difesa. È un cane che si morde la coda. Se investi troppo in qualcosa che non genera ricchezza produttiva, alla lunga avrai meno ricchezza per investire (o spendere) in qualsiasi cosa, difesa inclusa.

Passiamo all’occupazione. La spesa militare in Germania crea posti di lavoro? Certo che sì. L’industria della difesa, con colossi come Rheinmetall, dà lavoro a decine di migliaia di persone, centinaia di migliaia considerando l’indotto. Tuttavia, è un settore ad altissima intensità di capitale. Cosa significa? Che richiede enormi investimenti in macchinari, tecnologia e ricerca, e relativamente meno forza lavoro per unità di capitale investito rispetto ad altri settori.
Nell’articolo su Makroskop.eu si fa un confronto illuminante. L’industria della difesa e i suoi fornitori impiegano circa 150.000 persone in Germania. Sembrano tante, e lo sono. Ma confrontiamole con il settore sanitario, ad esempio, che è ad alta intensità di lavoro. Nel 2024, solo nel nucleo centrale del settore sanitario lavoravano 5,7 milioni di persone. Circa 38 volte di più! Questo significa che a parità di investimento, settori come la sanità, l’istruzione o la cura degli anziani generano molti più posti di lavoro della difesa.
Allora perché investire nella difesa? Qui torna il discorso della riforma del freno al debito. Se la spesa per la difesa oltre l’1% del PIL è esentata, lo Stato può, in teoria, mobilitare fondi quasi illimitati per questo scopo nella propria valuta, purché non ci siano altri vincoli legali o politici. In questo scenario, la minore efficienza della spesa militare in termini di creazione di posti di lavoro potrebbe sembrare meno rilevante, poiché basterebbe aumentare l’importo speso per ottenere comunque un certo numero di occupati.

Ma, come ci ricorda il principio di Lerner (quello da cui deriva il riferimento alla MMT), c’è sempre un limite dato dalle risorse reali disponibili. In una situazione di piena occupazione, aumentare la spesa in un settore ad alta intensità di capitale come la difesa significa sottrarre lavoratori e risorse ad altri settori. E se l’industria della difesa, come visto, genera meno valore aggiunto rispetto ad altri, la combinazione di salari in aumento (dovuti alla scarsità di manodera) e una creazione di valore più lenta o addirittura in diminuzione porta a un aumento dei costi per unità prodotta. Questa pressione sui costi tende a scaricarsi sui prezzi, alimentando l’inflazione.
È un meccanismo pericoloso, che si è visto all’opera in passato. L’articolo su Makroskop.eu cita l’esempio degli Stati Uniti durante la Seconda Guerra Mondiale. Con la macchina bellica che assorbiva manodopera e risorse dal settore civile, si creò un eccesso di domanda. C’erano meno persone a produrre beni di consumo (cibo, vestiti, ecc.), ma c’erano comunque bocche da sfamare (soldati e lavoratori). Lo Stato dovette intervenire per gestire questa situazione, promuovendo il risparmio, razionando i beni e aumentando le tasse per scoraggiare i consumi. Si cercò di “raffreddare” l’economia civile per sostenere lo sforzo bellico. Un esempio storico che dimostra come la priorità data alla produzione bellica abbia un impatto diretto e spesso negativo sull’economia civile e sul potere d’acquisto dei cittadini.

In conclusione, il dibattito sulla spesa militare della Germania, rilanciato dalla riforma del freno al debito, non è solo una questione di numeri e bilanci. È una riflessione profonda su quali siano le priorità economiche e sociali di un paese. L’analisi proposta da Malte Kornfeld su Makroskop.eu in “Werden Panzer und Kanonen zum Wirtschaftsmotor?” ci invita a guardare oltre la semplice retorica che dipinge il riarmo come un inevitabile motore di crescita. Ci ricorda, con argomenti solidi e basati sull’economia, che la spesa militare, per sua natura, ha limiti intrinseci nella sua capacità di generare ricchezza e posti di lavoro rispetto ad investimenti in settori produttivi e ad alta intensità di lavoro come le infrastrutture o la sanità.
La Germania si trova a un bivio cruciale. La scelta di come spendere le proprie risorse, soprattutto in un momento di sfide economiche globali, definirà non solo il suo ruolo geopolitico, ma anche il benessere e la prosperità dei suoi cittadini. Investire in carri armati e cannoni è una scelta che ha conseguenze economiche precise, e forse, prima di abbracciare questa strada con troppa leggerezza, varrebbe la pena di considerare attentamente chi (e cosa) beneficia davvero di questa massiccia iniezione di fondi pubblici, e chi invece rischia di pagarne il prezzo. L’insight che emerge con forza è che un’economia forte e produttiva nel settore civile è la base indispensabile per qualsiasi spesa, militare o meno. Forse è lì che dovrebbero concentrarsi gli sforzi maggiori.