afd germania

Immaginate un muro invisibile, non di cemento e filo spinato come quello che divideva Berlino fino al 1989, ma fatto di etica, memoria storica e convenzioni politiche. Per decenni, questo muro ha avuto un nome preciso in Germania: Brandmauer, il muro tagliafuoco. La sua funzione era semplice quanto vitale: impedire che l’incendio dell’estremismo di destra si propagasse nelle istituzioni democratiche, garantendo che nessun partito conservatore o liberale collaborasse mai con forze radicali come l’Alternative für Deutschland (AfD).

Eppure, mentre ci addentriamo nel freddo autunno del 2025, quel muro sembra essersi ridotto a un cumulo di macerie fumanti. Non è crollato sotto i colpi di una rivoluzione violenta, ma è stato smontato, mattone dopo mattone, nel silenzio ovattato dei consigli di amministrazione e nei corridoi del Parlamento Europeo.

Cosa succede quando la Realpolitik economica incontra la disperazione elettorale? Succede che ciò che ieri era un tabù impronunciabile, oggi diventa una strategia di sopravvivenza. Le notizie che rimbalzano da Bruxelles a Berlino, riportate da testate come il Tages-Anzeiger o analizzate da osservatori critici come German-Foreign-Policy e Telepolis, dipingono un quadro inequivocabile: il cordone sanitario è saltato.

Ma perché proprio ora? E soprattutto, siamo di fronte a una semplice fluttuazione politica o a un cambiamento strutturale del DNA democratico europeo? In questo viaggio attraverso la crisi della Brandmauer tedesca, esploreremo come l’industria, la geopolitica di Donald Trump e le contraddizioni sociali abbiano creato la tempesta perfetta per la normalizzazione dell’estrema destra.

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Che cos’è la Brandmauer e perché il suo crollo a Bruxelles segna un punto di non ritorno?

Per comprendere la situazione, dobbiamo guardare oltre i confini tedeschi, verso il cuore pulsante dell’Unione Europea. È lì, a Bruxelles, che si è consumato il “tradimento” simbolico che ha inviato un’onda d’urto fino alla Cancelleria di Berlino.

Fino a ieri, la politica europea si reggeva su una regola non scritta: il centro-destra (il Partito Popolare Europeo, PPE) governava cercando compromessi con i socialisti, i liberali e i verdi. Era la “maggioranza Ursula”, un’alleanza centrista a prova di scossoni. Tuttavia, nel novembre 2025, qualcosa si è rotto irreparabilmente. Manfred Weber, leader dei Cristiano-Democratici europei (e figura chiave della CSU bavarese), ha scelto di far passare una legge cruciale non con i suoi alleati storici, ma con i voti dell’estrema destra: l’AfD, i fedelissimi di Marine Le Pen e gli uomini di Viktor Orban.

L’oggetto del contendere? L’indebolimento della Lieferkettengesetz, la legge sulla due diligence nelle catene di approvvigionamento. Per la prima volta, la priorità di deregolamentare e abbassare i costi per le imprese è valsa più della tenuta del cordone sanitario. Non si è trattato di un incidente di percorso, ma di una scelta deliberata. Weber ha giustificato la mossa accusando la sinistra di rigidità ideologica, ma il messaggio politico è stato devastante: se i voti dell’estrema destra servono a salvare i profitti, quei voti sono accettabili.

Questo evento ha creato un precedente pericoloso per la politica interna tedesca. Se la CDU/CSU collabora con l’AfD a Strasburgo per “salvare l’economia”, con quale autorità morale il Cancelliere Friedrich Merz può vietare la stessa collaborazione a Berlino o a Dresda? La Brandmauer non è solo una barriera fisica, è una barriera mentale. Una volta che si inizia a pensare che l’estremismo sia un partner legittimo su singoli temi (“issue-based cooperation”), il muro non esiste più. Esiste solo l’opportunità.

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Perché il Mittelstand tedesco ha smesso di aver paura dell’AfD?

Se Bruxelles ha fornito il pretesto politico, il vero motore del cambiamento risiede nella pancia profonda della Germania: il Mittelstand. Le piccole e medie imprese, spesso a conduzione familiare, sono storicamente la spina dorsale dell’economia tedesca e, tradizionalmente, il bacino elettorale dei Liberali (FDP) o dei conservatori moderati.

Oggi, però, assistiamo a una mutazione genetica di questo elettorato. Analisi recenti, come quelle proposte da German-Foreign-Policy, evidenziano come associazioni influenti quali “Die Familienunternehmer” abbiano iniziato a lanciare messaggi che suonano come un liberi tutti. La frase che circola tra gli imprenditori è agghiacciante nella sua franchezza: “Ci congediamo dai muri tagliafuoco. Non hanno funzionato”.

Perché questo cambio di rotta? La risposta è brutalmente pragmatica:

  • Il vuoto di rappresentanza: La FDP, logorata da anni di governo e compromessi, non è più percepita come il difensore affidabile del libero mercato.
  • La fame di deregolamentazione: Le imprese si sentono soffocate dalla burocrazia verde e dai costi energetici. L’AfD, con il suo negazionismo climatico e la richiesta di smantellare le tutele ambientali, offre una soluzione “facile” e immediata.
  • La normalizzazione locale: In regioni come la Sassonia, si stima che un imprenditore su due simpatizzi ormai apertamente per l’AfD. Non per adesione ideologica al razzismo o al nazionalismo völkisch, ma perché vede nel partito l’unico interlocutore che parla la lingua del profitto senza filtri.

Siamo di fronte a una sostituzione del referente politico: l’AfD sta diventando la “nuova FDP” agli occhi del business. È un patto faustiano in cui il ceto produttivo accetta la retorica xenofoba come “rumore di fondo” tollerabile, pur di ottenere in cambio sgravi fiscali e meno controlli.

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Il “Modello Zuckerberg”: come le multinazionali si adattano al nuovo potere

Mentre le piccole imprese sono più vocali, le grandi multinazionali tedesche (i giganti della chimica, dell’auto, della farmaceutica) giocano una partita più sottile e cinica, che potremmo definire il “Modello Zuckerberg”.

Proprio come il CEO di Meta ha riabilitato Donald Trump dopo averlo bandito, adattandosi rapidamente al nuovo vento che soffiava da Washington, anche i capitani d’industria tedeschi stanno preparando il terreno. Ufficialmente mantengono le distanze per evitare danni reputazionali (la famosa brand safety), ma dietro le quinte i segnali sono chiari: non esistono più “paure di contatto di principio”.

Secondo report riservati e indiscrezioni raccolte dalla stampa specializzata, i grandi gruppi sono pronti a collaborare con un governo che includa l’AfD “un minuto dopo” il suo insediamento. La logica è quella del camaleonte: il capitale non ha colore politico, ha solo interessi. Se l’AfD garantisce stabilità (anche se autoritaria) e pro-business policy, il corporate Germany si adeguerà. La Brandmauer per loro non è un imperativo etico, ma un calcolo di rischio: finché il rischio di associarsi all’estrema destra superava i benefici, il muro restava in piedi. Ora che l’equazione si è invertita, il muro viene abbattuto.

Manifesto SPD per la pace con la Russia

Tasse e Lavoro: il paradosso di un partito “operaio” che serve i ricchi

Uno degli aspetti più affascinanti e contraddittori di questa fase storica, ben evidenziato da testate come Telepolis, è la convergenza programmatica tra l’AfD e le lobby industriali, che smentisce la narrazione populista del partito.

L’AfD raccoglie voti massicci tra i lavoratori precari, i disoccupati e la classe media impoverita, presentandosi come l’unica forza che ascolta “l’uomo comune” contro le élite globaliste. Tuttavia, se andiamo a leggere le proposte economiche che stanno cementando l’alleanza con il business, troviamo un programma ultra-liberista che farebbe impallidire la Thatcher.

Il punto di incontro è la fiscalità. Sia l’AfD che le associazioni imprenditoriali spingono per una Flat Tax (Einheitssteuer), spesso ipotizzata attorno al 25%. Una misura del genere:

  1. Avvantaggerebbe enormemente i redditi alti e i grandi patrimoni aziendali.
  2. Svuoterebbe le casse dello Stato, riducendo i fondi per quei servizi pubblici (sanità, scuole, sussidi) di cui beneficiano proprio gli elettori “popolari” dell’AfD.
  3. Indebolirebbe i sindacati, visti come un ostacolo alla flessibilità aziendale.

È il grande cortocircuito del populismo contemporaneo: i lavoratori votano per rabbia identitaria un partito che, una volta al potere, applicherà le ricette economiche desiderate dai loro datori di lavoro. La caduta della Brandmauer è facilitata proprio da questa illusione ottica: l’industria sa che l’AfD terrà a bada la piazza con la retorica nazionalista, mentre in Parlamento voterà per tagliare le tasse alle corporazioni.

elon musk e alice weidel

La svolta americana: via Putin, dentro Trump per piacere alla CDU

C’è un ultimo, gigantesco ostacolo che ha impedito finora la piena legittimazione dell’AfD: i suoi legami tossici con la Russia. Per anni, il partito è stato visto come la “quinta colonna” di Mosca in Germania. Ma nello scenario del 2025, con Donald Trump nuovamente alla Casa Bianca, l’AfD sta operando una metamorfosi strategica vitale.

Sotto la guida di figure pragmatiche come Alice Weidel, il partito sta cercando di rendersi “anschlussfähig” (coalizzabile) agli occhi dei conservatori tradizionali. Come? Sostituendo il mito della Russia con il mito dell’America di Trump.

  • L’ala filo-russa (forte all’Est) viene progressivamente emarginata o silenziata. I viaggi a Mosca diventano imbarazzanti, quelli a Washington diventano medaglie al valore.
  • Consulenti americani della galassia MAGA sono attivi a Berlino per insegnare all’AfD come vincere le guerre culturali e come presentarsi come baluardo dell’Occidente cristiano, non come sabotatori eurasiatici.

Questa mossa è geniale e pericolosa. La CDU/CSU e l’industria tedesca sono profondamente atlantiste. Se l’AfD smette di essere il partito di Putin e diventa il partito di Trump (il principale alleato della Germania), l’ultimo vero argomento morale per mantenere la Brandmauer cade. “Non possiamo allearci con i traditori della patria che stanno con Mosca”, dicevano i conservatori. Ma se l’AfD sta con Washington, quel veto perde forza. La “guerra spirituale” contro il progressismo unisce la destra americana, quella tedesca e i conservatori classici molto più di quanto la geopolitica li divida.

alice weidel elon musk

Il dilemma del Cancelliere Merz e il futuro dell’Europa

Tutto questo ci porta alla figura tragica e centrale di questo scenario: il Cancelliere tedesco (presumibilmente Friedrich Merz). Si trova intrappolato in una tenaglia mortale.

Da un lato, governa a Berlino in una coalizione difficile (probabilmente con la SPD), che richiede moderazione e fedeltà ai valori costituzionali. Dall’altro, il suo stesso partito in Europa (il PPE di Weber) e la sua base di riferimento (gli industriali) stanno già collaborando con l’AfD.
La pressione su Merz è insostenibile. Se continua a rifiutare l’apertura a destra, rischia di essere scavalcato dal suo stesso elettorato e di perdere il sostegno economico del Paese, che vede nella “Brandmauer” solo un ostacolo alla ripresa. Se apre, rischia di passare alla storia come il Cancelliere che ha riportato l’estrema destra nella stanza dei bottoni tedesca dopo 80 anni.

La Brandmauer non è caduta con un boato, ma con il fruscio delle carte firmate per deregolamentare le supply chain e con i brindisi discreti tra manager e deputati sovranisti. La Germania del 2025 ci mostra che in tempi di crisi, la “memoria storica” è un lusso che l’economia sente di non potersi più permettere.

E voi cosa ne pensate?
Credete che la stabilità economica valga il prezzo della normalizzazione politica di forze radicali? O stiamo assistendo a un pericoloso precedente che trasformerà per sempre il volto democratico dell’Europa? La discussione è aperta, perché ciò che accade a Berlino non resta quasi mai confinato a Berlino.

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