C’è un’immagine che, più di ogni altra, cattura l’essenza del sabotaggio Nord Stream: un ribollire innaturale sulla superficie altrimenti placida del Mar Baltico. Quelle bolle, salite da settanta metri di profondità nel settembre 2022, non erano solo gas che sfuggiva da tubature squarciate. Erano la manifestazione fisica di un trauma geopolitico, una ferita aperta che, a distanza di anni, continua a infettare le fondamenta della fiducia europea. Non si trattava solo di acciaio e cemento distrutti; era la distruzione di un simbolo, l’infrastruttura che doveva legare indissolubilmente l’economia tedesca, e di riflesso quella continentale, a una fonte energetica a basso costo. Oggi, quel relitto sottomarino è diventato un monumento al silenzio, al sospetto e a una domanda che risuona sempre più inquietante nei corridoi del potere di Berlino, Varsavia e Bruxelles: cosa succede quando un tuo alleato definisce un attacco alla tua infrastruttura vitale un atto di “giusta difesa”?

L’inchiesta sull’Andromeda: una verità di comodo o una pista concreta?
Ogni grande mistero ha bisogno di una storia, una narrazione che possa mettere ordine nel caos. Per l’attentato al Nord Stream, questa storia ha un nome quasi mitologico: Andromeda. È il nome dello yacht a vela di quindici metri che, secondo le indagini della Procura Federale tedesca, sarebbe stato il cavallo di Troia usato da un commando di sei persone, presumibilmente ucraine, per compiere l’operazione. Una narrazione quasi cinematografica: un gruppo di abili sommozzatori che noleggia una barca in Germania, salpa verso l’isola danese di Bornholm e piazza cariche esplosive di livello militare sui gasdotti.
Sulla carta, la pista sembra solida, corroborata da tracce di esplosivo trovate a bordo. Eppure, più questa versione dei fatti viene consolidata, più si allarga un’ombra di scetticismo, un brusio che dalle discussioni online più accese si è fatto strada fino alle analisi di osservatori internazionali. È davvero plausibile che un’operazione di tale complessità e precisione, capace di eludere la sorveglianza della NATO in uno dei mari più militarizzati al mondo, sia stata condotta da una piccola cellula indipendente a bordo di una barca a vela? O, come suggeriscono molti, l’Andromeda non è altro che una “Nebelkerze”, una cortina fumogena, una narrazione conveniente per evitare di guardare verso attori statali ben più potenti, la cui implicazione scatenerebbe una crisi diplomatica senza precedenti? La storia dell’Andromeda, per alcuni, non risponde a una domanda, ma ne solleva una più grande: chi trae vantaggio da questa versione dei fatti?

Il verdetto di Varsavia: quando la giustizia riscrive le regole della guerra
È in questo clima di incertezza che è arrivata la decisione di un tribunale di Varsavia, una sentenza che ha avuto l’effetto di una scossa tellurica nel diritto europeo. La richiesta della Germania di estradare Wolodymyr Z., un cittadino ucraino considerato uno degli esecutori materiali del sabotaggio, è stata respinta. La motivazione del giudice polacco è stata duplice e di una portata devastante. In primo luogo, ha definito le prove fornite da Berlino “troppo generiche”. Ma è stata la seconda argomentazione a gelare il sangue nelle vene dei diplomatici tedeschi: il giudice ha affermato che, nel contesto di una “giusta guerra di difesa”, la distruzione di un’infrastruttura nemica non è un atto di sabotaggio, ma un’azione militare legittima che non può costituire un crimine.
Questa frase non è solo un cavillo legale; è una dichiarazione politica. Riscrive i confini tra sabotaggio, terrorismo e atto di guerra, applicando una logica di conflitto a un’infrastruttura che, sebbene di proprietà russa, era il cordone ombelicale energetico della Germania. Le parole del Primo Ministro polacco Donald Tusk, che ha definito il caso “chiuso” e ha celebrato la distruzione del gasdotto, e del suo Ministro degli Esteri Radosław Sikorski, che ha parlato di “legittima autodifesa”, hanno confermato che non si trattava di un’iniziativa isolata di un giudice. La Polonia ha scelto di schierarsi, trasformando un procedimento giudiziario in un manifesto politico. L’Europa ha così scoperto che il suo sistema di cooperazione legale, il mandato d’arresto europeo, può essere disinnescato da una diversa interpretazione della parola “guerra”.

Il silenzio di Berlino: pragmatismo politico o rinuncia alla sovranità?
Di fronte a quello che molti in Germania hanno percepito come un affronto diretto, la reazione del governo tedesco è stata un silenzio quasi assordante. Nessuna protesta formale, nessuna critica aspra. Il commento ufficiale, affidato al Ministro degli Esteri Wadephul, è stato di un formalismo glaciale: “Rispettiamo la decisione di un tribunale polacco, perché crediamo nella separazione dei poteri”. Una risposta che, secondo molti commentatori della stampa tedesca, suona più come un sospiro di sollievo che come una difesa della propria giurisdizione.
Questo atteggiamento passivo alimenta una domanda cruciale sulla Germania post-Zeitenwende, la “svolta epocale” annunciata dal Cancelliere Scholz. Il paese sta davvero assumendo un nuovo ruolo di leader in Europa o sta scoprendo i limiti della propria influenza persino di fronte a un attacco diretto ai suoi interessi strategici? Il timore, neanche troppo velato, è che Berlino preferisca non scavare troppo a fondo nell’inchiesta sul sabotaggio Nord Stream per paura di ciò che potrebbe trovare. Se la pista ucraina dovesse consolidarsi, metterebbe in grave imbarazzo il principale sostenitore europeo di Kiev. Se, d’altra parte, dovessero emergere prove di un coinvolgimento di un alleato ancora più potente, come gli Stati Uniti, la crisi che ne scaturirebbe minaccerebbe di far crollare l’intero edificio della NATO. Il silenzio, in questo scenario, non è assenza di parole, ma una scelta strategica. Ma qual è il prezzo di questo silenzio? È la stabilità dell’alleanza o la rinuncia a un pezzo di sovranità?

Oltre la Polonia: l’eco del sabotaggio Nord Stream e la frattura europea
L’onda d’urto del verdetto polacco non si è fermata al confine tedesco. Pochi giorni prima, anche la Corte di Cassazione italiana aveva bloccato, seppur per vizi procedurali, l’estradizione di un altro sospettato ucraino. La cooperazione giudiziaria europea, uno dei pilastri dell’integrazione, sembra scricchiolare sotto il peso della geopolitica. Lo scontro verbale tra il Ministro degli Esteri ungherese, che ha accusato la Polonia di “celebrare un terrorista”, e la sua controparte polacca, mostra come l’attentato al Nord Stream abbia creato una nuova linea di faglia.
Non si tratta più solo di scoprire chi ha materialmente piazzato le bombe. Si tratta di definire cosa è lecito in un’epoca di guerra ibrida. Se un paese in guerra può colpire un’infrastruttura civile in un paese terzo, non belligerante, e ricevere la protezione politica e legale di un altro paese membro dell’UE, quali saranno le prossime infrastrutture a essere considerate “obiettivi legittimi”? I cavi sottomarini per le telecomunicazioni? Le centrali elettriche? Il sabotaggio Nord Stream ha creato un precedente pericoloso, un’area grigia in cui le regole del diritto internazionale sembrano sospese in nome di una superiore “ragion di stato”.

Dalle profondità del Baltico al web: la guerra delle narrazioni sul sabotaggio
Mentre le indagini ufficiali arrancano tra veti politici e vicoli ciechi, un’altra battaglia, altrettanto feroce, si combatte online. Il caso Nord Stream è diventato un manuale di guerra dell’informazione. Da un lato, la narrazione “occidentale” che punta su una cellula ucraina pro-Zaluzhnyi, forse per creare una frattura interna alla leadership di Kiev. Dall’altro, le teorie, sostenute da fonti alternative e amplificate da bot, che indicano un’operazione militare statunitense, citando le dichiarazioni premonitrici del Presidente Biden sulla fine del gasdotto. In mezzo, una polverizzazione di ipotesi che chiamano in causa la Norvegia, la Polonia stessa, o persino un’operazione false flag russa.
Questa cacofonia non è un semplice effetto collaterale; è parte integrante della strategia di chiunque sia il mandante. Confondere le acque, seminare sfiducia nelle istituzioni e nei media tradizionali, rendere la verità un concetto relativo. L’eredità più duratura del sabotaggio Nord Stream potrebbe non essere economica o strategica, ma cognitiva: la normalizzazione dell’idea che certi eventi, semplicemente, non possano più essere “risolti”, destinati a rimanere eternamente avvolti in una nebbia di narrazioni contrapposte.

Il gasdotto interrotto e le domande aperte: chi paga il prezzo del silenzio?
Torniamo a quelle bolle nel Mar Baltico. Oggi la superficie del mare è di nuovo calma, ma sotto le onde il relitto del Nord Stream giace come un memento. È il simbolo di un’Europa che, per difendere la propria unità di facciata, potrebbe aver scelto di non guardare in faccia una verità scomoda. Le mancate estradizioni, il silenzio tedesco, la retorica bellica polacca non sono eventi isolati. Sono i capitoli di una storia che ci interroga tutti.
Siamo di fronte a un nuovo paradigma in cui il sabotaggio di infrastrutture civili diventa un’arma accettabile nel grande gioco delle nazioni? Qual è il prezzo della “solidarietà” atlantica se questo prezzo è il silenzio di fronte a un attacco che ha menomato il cuore industriale d’Europa? E infine, se la verità sul sabotaggio Nord Stream non verrà mai accertata, chi ci garantirà che non accada di nuovo, magari la prossima volta con conseguenze ancora più devastanti? Il gas ha smesso di fluire, ma le domande continuano a sgorgare, più tossiche e corrosive di qualsiasi idrocarburo. E forse, la vera esplosione deve ancora avvenire.