Ci credete se vi dico che c’è stato un tempo, non così lontano, in cui la Germania – sì, proprio lei, la locomotiva d’Europa, l’inarrivabile campionessa dell’export, il simbolo stesso del “Wirtschaftswunderland”, il miracolo economico post-bellico – finì clamorosamente e inaspettatamente… in deficit? Non un deficit di bilancio statale, attenzione, ma un deficit delle partite correnti, quello che misura gli scambi di beni e servizi con l’estero. Sembra quasi una barzelletta, una fake news storica, vero? Eppure, signore e signori, accadde davvero. L’anno era il 1980, un’epoca che molti oggi ricordano a malapena, ma che fu cruciale per capire tante dinamiche economiche e politiche che ci trasciniamo ancora dietro. Ne scrive Heiner Flassbeck

E chi meglio dell’economista tedesco Heiner Flassbeck, una voce spesso controcorrente ma sempre acuta, può raccontarci questa storia incredibile dall’interno? Perché Flassbeck non è uno storico che studia carte impolverate. No, lui era lì, proprio nel cuore della macchina, come giovane e brillante funzionario nel prestigioso Ministero Federale dell’Economia, nella placida capitale che era Bonn. Ha visto con i suoi occhi non solo i freddi numeri su un foglio, ma ha respirato l’aria, ha sentito le voci, ha percepito lo shock quasi esistenziale che quell’evento scatenò nel paese. Ha assistito alle reazioni scomposte, alle accuse politiche al veleno, e soprattutto – ed è questo il punto cruciale che ci svela – ha compreso l’abissale distanza tra il panico diffuso e la realtà economica effettiva, una realtà molto meno drammatica di come veniva dipinta.

Allacciate le cinture, quindi, perché stiamo per fare un viaggio nel tempo guidati da un testimone d’eccezione. Un viaggio che non solo ci farà rivivere un momento quasi dimenticato della storia tedesca, ma che, grazie allo sguardo lucido e disincantato di Flassbeck, potrebbe farci crollare molte delle certezze granitiche che abbiamo oggi sulla bilancia commerciale, sui pericoli (presunti o reali) dei deficit, sull’onnipotenza (vera o immaginata) dei surplus, e sul modo in cui la politica troppo spesso manipola l’economia per i propri fini. Preparatevi a mettere in discussione quello che credevate di sapere.
Il Racconto dall’Interno: Panico a Bonn
Immaginatevi la scena: siamo nella Germania Ovest del 1980. Un paese che si era ricostruito dalle macerie della guerra diventando un gigante economico ammirato e, forse, un po’ invidiato. Un paese basato sull’industria manifatturiera, sull’export, sulla solidità del suo Marco tedesco (la D-Mark), sulla disciplina fiscale. E poi, come un fulmine a ciel sereno, arriva la notizia: la bilancia delle partite correnti è in rosso. Deficit. Per la prima volta dopo anni di trionfali surplus.

Flassbeck, dalle stanze del ministero, percepisce immediatamente l’ondata di sconcerto. Non è solo una questione economica, diventa subito un dramma nazionale, quasi una crisi d’identità. Come poteva accadere? Come poteva il modello tedesco, apparentemente invincibile, mostrare una crepa così evidente? La reazione politica fu immediata e feroce. Flassbeck ricorda perfettamente come tutti i “buoni conservatori” – quelli che si consideravano i depositari della vera saggezza economica – non ebbero dubbi neanche per un secondo: la colpa era tutta dei “terribili socialisti” (i socialdemocratici dell’SPD) che governavano insieme ai liberali della FDP (allora percepiti come meno “affidabili” dai puristi dell’economia). L’accusa era pesante: avevano sperperato, gestito male, indebolito la nazione al punto da permettere l’impensabile. Il governo, guidato all’epoca da un personaggio del calibro di Helmut Schmidt – un socialdemocratico pragmatico, rispettato a livello internazionale, ma che Flassbeck descrive quasi come “caduto”, travolto dagli eventi o forse costretto a piegarsi a logiche che non condivideva del tutto – si trovò sulla graticola.
E pensare che proprio Schmidt, negli anni ’70, nel pieno delle turbolenze seguite alle grandi crisi petrolifere, aveva partecipato ai primi summit internazionali (i precursori dei G7/G8/G20) in cui si cercava di coordinare le risposte delle grandi economie. In quel contesto, racconta Flassbeck, Schmidt aveva persino accettato l’idea, rivoluzionaria per la mentalità tedesca, che non solo gli Stati Uniti, ma anche la Germania e l’Europa avessero il compito di fare da “locomotiva” per l’economia mondiale. Gli USA, infatti, erano già in deficit (la loro “locomotiva”, dice Flassbeck con una metafora efficace, “aveva finito il carbone”) e serviva qualcun altro che tirasse il treno della crescita globale. Una visione cooperativa, quasi keynesiana, che però strideva fortemente con l’ortodossia economica che stava prendendo piede in Germania.

La Realtà Dietro le Quinte: Stimoli Timidi e Freni Tiratissimi
Ma cosa stava succedendo davvero nell’economia tedesca, al di là delle invettive politiche e dello shock collettivo? Il governo social-liberale, spinto forse anche da quegli impegni internazionali presi da Schmidt, tentò effettivamente di dare una spinta all’economia. Come? Attraverso quelli che Flassbeck chiama “programmi fiscali”, ovvero, in parole povere, facendo un po’ di debito pubblico aggiuntivo per finanziare investimenti o misure che stimolassero la domanda interna e, di riflesso, quella europea. Un tentativo timido, quasi impaurito, di usare la leva fiscale per contrastare la stagnazione.
Il problema, sottolinea Flassbeck con una punta di sarcasmo verso le istituzioni, è che mentre il governo provava a premere sull’acceleratore (poco e con esitazione), c’era qualcun altro che, con molta più convinzione, teneva entrambi i piedi piantati sul freno: la “buona” Deutsche Bundesbank. La banca centrale tedesca, custode gelosa dell’ortodossia monetaria e terrorizzata dall’inflazione (un trauma storico per la Germania), vedeva questi tentativi di stimolo fiscale come “follia socialista”. E così, mentre il governo cercava di iniettare un po’ di energia nell’economia, la Bundesbank la raffreddava con tassi d’interesse alti e una politica monetaria restrittiva. Un gioco a somma zero? Non proprio.
Il risultato di questa politica economica schizofrenica, con il governo che spingeva da una parte e la banca centrale che tirava dall’altra, fu che lo stimolo fiscale ebbe effetti minimi sulla crescita reale. Ma, ironia della sorte, fu sufficiente – insieme a un altro fattore cruciale – a far scivolare la bilancia commerciale in rosso. Qual era questo fattore decisivo, spesso ignorato nel dibattito pubblico urlato di quei giorni? Flassbeck lo identifica senza esitazioni: il contemporaneo, forte apprezzamento del Marco tedesco. La valuta tedesca stava diventando sempre più “cara” sui mercati internazionali. Questo rendeva automaticamente i prodotti tedeschi più costosi per gli acquirenti stranieri (frenando l’export) e i prodotti stranieri più convenienti per i consumatori tedeschi (spingendo l’import). Un meccanismo di mercato quasi automatico, una conseguenza della forza relativa dell’economia tedesca nonostante le difficoltà congiunturali. Ed ecco spiegato, in gran parte, quel deficit tanto temuto. Non un segno di collasso, ma l’effetto collaterale di una valuta forte e di politiche economiche contraddittorie.

L’Aneddoto Che Svela Tutto: La Profezia di Sventura di Waigel
Per farci capire davvero il clima surreale di quei giorni e la distanza tra analisi economica seria e propaganda politica, Flassbeck ci regala un aneddoto personale impagabile. Lui, giovane funzionario con la testa piena di teorie economiche e analisi di dati, viene mandato una sera dal suo capo ad assistere a una conferenza nella prestigiosa Godesberger Redoute. L’ospite d’onore era un politico in ascesa, un certo Theo Waigel, allora portavoce per le politiche economiche del gruppo parlamentare CDU/CSU (i conservatori all’opposizione). Waigel, che tutti a Bonn indicavano come un futuro pezzo grosso della Repubblica Federale, aveva un solo tema quella sera: ovviamente, il primo, storico deficit delle partite correnti tedesco.
Flassbeck ricorda ancora oggi, a distanza di decenni, l’impressione devastante (in senso negativo) che quel discorso gli fece. Non ricorda i dettagli specifici, le cifre snocciolate, ma ha ben impressa l’essenza del messaggio di Waigel: quel deficit non era un semplice numero, era “l’anticamera dell’inferno”, il “percorso diretto verso la rovina”, il segno inequivocabile del fallimento totale delle politiche del governo. Un’apocalisse economica imminente, dipinta con toni drammatici e accusatori.

Flassbeck racconta di essere uscito da quella sala con un dubbio amletico: “O sono io, a trent’anni, che sono ancora un completo idiota e non capisco nulla di economia, oppure quest’uomo, questo Waigel che tutti celebrano come un futuro leader, ha appena tenuto il discorso più insensato, più privo di fondamento economico, che abbia mai sentito in vita mia.” Bastarono poche riflessioni, un rapido riesame dei dati e delle dinamiche in gioco, per convincersi che la seconda ipotesi era quella corretta. La retorica catastrofista di Waigel era, dal punto di vista di una seria analisi economica, semplicemente assurda. Quel deficit, causato in gran parte dall’apprezzamento del Marco, non era il sintomo di una malattia mortale, ma un evento congiunturale, forse addirittura un meccanismo di riequilibrio naturale.
Spinto da questa convinzione, quasi per reazione a quella che percepiva come una pericolosa disinformazione, Flassbeck si mise subito a scrivere un articolo. Lo intitolò, significativamente, “Das Leistungsbilanzrätsel” (L’enigma delle partite correnti). In quello scritto, cercò di dimostrare, dati alla mano, che quella leggera oscillazione verso il rosso della bilancia commerciale era “del tutto innocua” e attribuibile principalmente all’effetto cambio. Non c’era nessuna catastrofe all’orizzonte. Ma, come spesso accade, la narrazione semplice e spaventosa ebbe più successo dell’analisi complessa e rassicurante. Theo Waigel, infatti, continuò la sua brillante carriera politica, senza che le sue previsioni apocalittiche (mai avveratesi) lo intralciassero minimamente. Anzi, nel 1989, divenne Ministro Federale delle Finanze sotto il governo di Helmut Kohl. Proprio Kohl e Waigel, i due “grandi esperti” di economia secondo la vulgata popolare, sarebbero stati poi coloro a cui i tedeschi dell’Est, dopo la caduta del Muro, affidarono fiduciosamente le sorti economiche del loro paese riunificato. Un’altra ironia della storia, su cui Flassbeck sorvola appena, ma che lascia intendere molto.

Il Parallelismo Sferzante: Da Waigel a Trump, Stessa Musica?
Ed è proprio questa storia, questa esperienza diretta di come un dato economico possa essere distorto, ingigantito e usato politicamente, che porta Flassbeck a fare un salto temporale e a lanciare una frecciata acuminata verso i dibattiti economici più recenti, in particolare quelli dominati dalla figura di Donald Trump e dalla sua ossessione per i deficit commerciali americani.
La domanda di Flassbeck è retorica ma tagliente: “Ma perché mai questo Trump si comporta in modo così sciocco?” Perché si ostina a vedere i deficit commerciali come il male assoluto, come una prova di debolezza, come un furto subito da altri paesi? Noi europei, e i tedeschi in particolare, dovremmo saperlo bene, dopo l’esperienza del 1980, che i deficit delle partite correnti non sono necessariamente una tragedia! Anzi, spesso sono semplicemente la prova che la divisione internazionale del lavoro funziona: i beni vengono prodotti là dove si riesce a farlo in modo più efficiente e competitivo (dove lavorano le persone più “in gamba”, dice Flassbeck con una punta d’orgoglio nazionale mascherato da constatazione oggettiva), e chi li compra beneficia di prezzi migliori o qualità superiori. È il mercato globale, bellezza!
Certo, ammette Flassbeck, il deficit americano ha raggiunto cifre impressionanti negli ultimi anni – superando i 1000 miliardi di dollari (1,13 trilioni) in termini di beni e servizi scambiati in un anno. Ma rapportato al Prodotto Interno Lordo (PIL) americano, si tratta “solo” del 4% circa. Una cifra significativa, certo, ma non apocalittica. E poi, aggiunge un altro dettaglio fondamentale spesso dimenticato: gli americani convivono con questi deficit da quasi mezzo secolo! Sono 45 anni che importano più di quanto esportano. A questo punto, ironizza Flassbeck, “potrebbero anche essercisi abituati”, no? Invece no, la retorica politica trumpiana (ma non solo) ha continuato a dipingerli come un disastro nazionale, una sconfitta da vendicare con dazi e guerre commerciali. Esattamente come Waigel nel 1980, ma su scala globale. La storia si ripete, spesso come farsa, ma una farsa con conseguenze economiche molto reali.

L’Ironia Feroce sull’Identità Tedesca: Nati per il Surplus?
Ma se la critica a Trump è diretta, ancora più sottile e corrosiva è l’ironia che Flassbeck riserva alla sua stessa nazione, la Germania. Dopo aver smontato il panico per il deficit del 1980, passa a descrivere, con un sarcasmo che si taglia a fette, l’immagine che la Germania ama dare di sé oggi: quella della “nazione nata per il surplus”. Un’identità costruita su decenni di avanzi commerciali, vissuti non come un semplice dato statistico, ma come una prova di superiorità morale ed economica.
“Noi siamo così”, sembra dire Flassbeck parodiando questa mentalità, “siamo semplicemente i migliori!” Siamo intelligenti, siamo forti, siamo i più grandi organizzatori del pianeta – e qui lancia una frecciata velenosa e quasi profetica, considerando i disastri successivi – “costruiamo aeroporti e stazioni ferroviarie in un batter d’occhio!” (Chiunque conosca le vicende dell’aeroporto di Berlino Brandeburgo o della stazione di Stoccarda coglie l’amara ironia). Con i nostri prodotti imbattibili, noi tedeschi “letteralmente benediciamo il resto del mondo”. Non facciamo commercio, facciamo quasi beneficenza globale, portando qualità e efficienza ovunque.
E guai a chi osa chiamarlo “mercantilismo”! Chi accusa la Germania di perseguire politiche neo-mercantiliste, basate sull’accumulo ossessivo di surplus commerciali magari a scapito dei partner, “non sa di cosa parla”, ribatte il Flassbeck-parodista. Certo, anche i vecchi mercantilisti del Sei-Settecento avevano surplus, ma i loro erano “immeritati”, frutto di protezionismo e politiche predatorie. I nostri surplus, invece, sono “duramente guadagnati” con il sudore della fronte, l’innovazione, la disciplina. Siamo semplicemente più bravi, punto.

Ma poi, la maschera cade e Flassbeck rivela il suo vero pensiero: il vero mercantilista, quello che agisce secondo la vecchia logica del “mors tua vita mea” commerciale, siede alla Casa Bianca (all’epoca del testo originale). È Trump che cerca disperatamente di “rendere indigesti” (madig machen) i prodotti tedeschi ai suoi cittadini, non perché siano scadenti, ma “semplicemente perché è invidioso della nostra bravura”, della nostra efficienza produttiva.
E la conclusione è un capolavoro di orgoglio nazionale ferito e sfida sprezzante: “Ma che si tenessero pure le loro auto scassate gli americani!” Se non ci vogliono, peggio per loro. Noi tedeschi “troveremo sicuramente altri popoli” nel mondo, altri paesi disposti ad apprezzare i nostri beni superiori. Paesi che capiranno la (presunta) verità economica fondamentale: solo avendo un deficit nella loro bilancia commerciale con noi, potranno dimostrare a sé stessi e al mondo quanto funziona bene l’ordine economico internazionale (quello basato, ovviamente, sull’export tedesco). Un finale quasi surreale, che smaschera con sarcasmo l’autocelebrazione tedesca e la sua potenziale miopia sugli squilibri globali che essa stessa contribuisce a creare.

Conclusione: Oltre i Numeri, la Critica Necessaria
Cosa ci resta, alla fine di questo viaggio illuminante guidato da Heiner Flassbeck? Molto più di un semplice aneddoto storico su un deficit dimenticato. Ci resta la consapevolezza, scomoda ma necessaria, di quanto l’economia sia inestricabilmente legata alla politica, alla psicologia collettiva, alle narrazioni dominanti. I numeri – un deficit, un surplus, un tasso di crescita – raramente parlano da soli. Sono quasi sempre interpretati, colorati, distorti, usati come armi nel dibattito pubblico e nella lotta per il potere.
La storia del 1980 tedesco, con il panico per un deficit “innocuo” e la successiva carriera politica di chi gridava alla catastrofe, è un esempio da manuale. Così come lo è, secondo Flassbeck, l’ossessione più recente per i deficit americani o l’autocelebrazione tedesca dei propri surplus. In entrambi i casi, si rischia di perdere di vista la complessità dei fenomeni economici globali, le interconnessioni, gli effetti collaterali delle proprie politiche sui partner commerciali.
L’invito che emerge potente dalle parole di Flassbeck è dunque quello a sviluppare un pensiero critico, a non fermarsi alle apparenze, a diffidare delle narrazioni troppo semplici o troppo allarmistiche. Prima di agitarci per un segno “meno” davanti a un saldo commerciale, o di esaltarci acriticamente per un segno “più”, dovremmo forse chiederci, come ci insegna la sua esperienza: Chi sta raccontando questa storia? Con quali interessi? E qual è la realtà economica che si cela dietro la cortina fumogena della propaganda? Solo ponendoci queste domande potremo sperare di capire davvero qualcosa del mondo complesso in cui viviamo e, forse, di evitare di ripetere gli stessi errori del passato. La lezione di Heiner Flassbeck, nata tra le mura di un ministero a Bonn più di quarant’anni fa, risuona ancora oggi con una forza sorprendente.