C’è un’eco che risuona nei dibattiti pubblici europei. Un’eco sottile, quasi impercettibile, ma persistente. È la sensazione che, su certi temi cruciali, gli “esperti” invitati nei talk show, gli accademici citati sui giornali e gli analisti dei think tank parlino una lingua stranamente simile, quasi orchestrata. Le stesse parole chiave, le stesse conclusioni, la stessa incrollabile fede nella narrazione ufficiale.
Non è una coincidenza. È un’architettura. Un’architettura di incentivi e finanziamenti il cui motore invisibile, ma potentissimo, si trova in un luogo che dovremmo considerare sacro e inviolabile: l’università.
Questa non è la trama di un romanzo distopico, ma la tesi centrale di una dirompente inchiesta di Thomas Fazi. Analizzando un video in cui il giornalista svela i meccanismi interni del sistema, emerge un quadro inquietante: quello che Fazi definisce un vero e proprio “complesso propagandistico” che lega indissolubilmente media, ONG e, soprattutto, il mondo accademico. Al centro di questa rete, un nome apparentemente innocuo: il Programma Jean Monnet.
Ma cosa c’entra un programma di finanziamento per l’eccellenza accademica con la propaganda? E come sta, pezzo dopo pezzo, minando le fondamenta stesse del pensiero critico in Europa?

Il Cavallo di Troia Accademico: Le Critiche al Programma Jean Monnet
Sulla carta, il Programma Jean Monnet è un’iniziativa lodevole. Nato nel 1989, ha l’obiettivo dichiarato di “promuovere l’eccellenza nell’insegnamento e nella ricerca sull’integrazione europea”. Con un budget di circa 25 milioni di euro all’anno, finanzia quasi 1.000 cattedre accademiche in tutto il mondo, raggiungendo mezzo milione di studenti. Chi potrebbe avere qualcosa da ridire?
Il problema, come emerge dalle parole di Fazi e dall’analisi dei documenti ufficiali, risiede nello slittamento semantico tra “insegnare” e “promuovere”. I documenti del programma non si limitano a chiedere una ricerca neutrale sull’UE. Esplicitamente, parlano di sostenere una “coscienza europea”, di rafforzare una “identità comune” e, cosa ancora più allarmante, di formare accademici che agiscano come veri e propri “ambasciatori dell’Unione Europea”.
Pensa a cosa significa questo. Un professore universitario, la cui missione dovrebbe essere quella di fornire agli studenti strumenti critici per analizzare la realtà da ogni angolazione, viene incentivato a diventare un portavoce. Un “facilitatore” di un’agenda politica. Non è più un esploratore della verità, ma una guida turistica che mostra solo i lati più soleggiati del paesaggio, omettendo le zone d’ombra. Le critiche al Programma Jean Monnet non riguardano quindi la sua esistenza, ma la sua funzione. È diventato, secondo i suoi detrattori, uno strumento per generare consenso artificiale, per costruire una validazione accademica “indipendente” a politiche e narrative decise altrove.

Il Denaro Non Dorme Mai: Come l’UE Finanzia la Ricerca Accademica e Perché Dovrebbe Preoccuparci
Per capire la portata del problema, dobbiamo guardare a come l’UE finanzia la ricerca accademica oggi. Siamo passati da un modello in cui le università ricevevano fondi pubblici stabili, garantendo una certa autonomia, a un sistema dominato dalla finanza basata su progetti.
Immagina due ricercatori. Il primo, Paolo, ha un progetto innovativo ma critico: vuole analizzare i fallimenti dell’eurozona o l’impatto negativo della deindustrializzazione legata a certe politiche UE. Il secondo, Francesco, propone una ricerca su come “contrastare la disinformazione russa per rafforzare la resilienza democratica europea”.
Chi dei due avrà più probabilità di ottenere un cospicuo finanziamento da un bando europeo?
La risposta è quasi scontata. Il sistema non premia necessariamente l’idea più originale o rigorosa, ma quella che meglio si inserisce nelle “priorità politiche” del momento. Come spiega Fazi nell’intervista, non c’è nemmeno bisogno di ordini diretti. I ricercatori, per sopravvivere e fare carriera, imparano presto quali caselle spuntare. Iniziano a pensare in termini di “finanziabilità” anziché di “verità”.
Questo crea un devastante effetto a catena:
- Auto-censura preventiva: Molti accademici evitano argomenti controversi o critici verso l’UE per non bruciarsi future opportunità di carriera. Il dissenso non viene represso; semplicemente, non viene finanziato.
- Omogeneizzazione del pensiero: Interi dipartimenti si specializzano in temi “caldi” e ben finanziati (la transizione verde, il digitale, la “rule of law”), creando una bolla di consenso dove le voci alternative sono marginalizzate.
- La corruzione dell’istituzione: Le università stesse entrano in competizione per accaparrarsi i ricercatori che portano più grant, trasformando il sapere in una merce e il successo accademico in una questione di abilità nel fundraising.
È un sistema sottile, quasi invisibile dall’esterno, ma incredibilmente efficace nel plasmare non solo cosa si ricerca, ma anche come lo si pensa.

L’Ecosistema del Consenso: Oltre il Velo della Propaganda UE
L’inchiesta di Thomas Fazi è cruciale perché non si ferma all’università. Disegna la mappa di un vero e proprio “ecosistema” integrato, una macchina a tre teste che lavora in sinergia per controllare la narrativa pubblica.
- I Media: Spesso finanziati direttamente o indirettamente dall’UE, hanno il compito di stabilire l’agenda e i confini del dibattito accettabile. Ripetono la narrativa ufficiale, legittimandola.
- Le ONG: Molte organizzazioni non governative, che percepiamo come “voce della società civile”, dipendono quasi interamente da fondi pubblici europei. Fazi le definisce, senza mezzi termini, “propagandisti per procura”. La loro funzione è creare dal basso una domanda artificiale per politiche già decise dall’alto, dando l’illusione di un vasto supporto popolare.
- L’Università: È l’ultimo anello della catena. Fornisce il sigillo di garanzia, la validazione “scientifica” ed “esperta” alla narrativa. Quando un professore Jean Monnet scrive un editoriale o appare in TV, parla con l’autorità della sua cattedra, ma sta, di fatto, chiudendo un cerchio propagandistico.
Questo sistema integrato spiega perché, su temi cruciali come la guerra in Ucraina, la politica energetica o la gestione economica, ci sia una così schiacciante uniformità di vedute tra media mainstream, think tank e mondo accademico. Non è una cospirazione, è un’architettura di incentivi. Un sistema progettato per marginalizzare il dissenso e creare un’illusione di consenso monolitico.

Un Conflitto di Interessi Nascosto nei Fondi Europei?
Qui tocchiamo un nervo scoperto: il conflitto di interessi legato ai fondi europei. Immaginiamo se una casa farmaceutica finanziasse il 100% degli studi sulla sicurezza di un proprio farmaco. Saremmo giustamente scettici sui risultati. Eppure, accettiamo passivamente che accademici finanziati dall’Unione Europea pubblichino ricerche e analisi sulla stessa Unione Europea, spesso difendendone le politiche.
Durante la campagna per la Brexit, ricorda Fazi, molti degli accademici più strenui difensori del “Remain” nel Regno Unito erano titolari di cattedre Jean Monnet. Raramente, se non mai, questo legame finanziario veniva reso esplicito. Il pubblico li percepiva come esperti neutrali, non come beneficiari diretti dell’istituzione che stavano difendendo.
Questa mancanza di trasparenza è profondamente problematica. Non significa che ogni ricercatore finanziato dall’UE sia disonesto, ma che il sistema stesso è strutturalmente viziato. Introduce una distorsione, un bias sistemico che rende quasi impossibile una critica radicale e indipendente dall’interno.
Qual è il confine tra ricerca e lobbying? Tra analisi e advocacy? E chi lo decide?

L’Ultima Frontiera: L’Indipendenza della Ricerca Universitaria in Europa è Davvero a Rischio?
Forse la domanda più importante è quella sul futuro. L’indipendenza della ricerca universitaria in Europa è a rischio? La risposta, purtroppo, sembra essere affermativa. Quello che stiamo perdendo non è solo la pluralità delle opinioni, ma qualcosa di molto più profondo: la funzione sociale dell’università come coscienza critica della società.
Un’università che non produce eretici, che non mette in discussione il potere, che non esplora alternative radicali, smette di essere un’università. Diventa una scuola di alta formazione per burocrati, un’agenzia di pubbliche relazioni per le élite. Storie come quella di Ulrike Guérot, accademica allontanata dall’Università di Bonn per le sue posizioni critiche, non sono incidenti isolati, ma sintomi di un sistema che sta diventando sempre più intollerante verso il dissenso.
La vera tragedia è che si sta formando una generazione di studenti e ricercatori che considera questa situazione normale. Giovani brillanti che imparano fin da subito che per fare carriera è meglio conformarsi, usare il giusto gergo (“resilienza”, “valori europei”, “sfide globali”) e non fare troppe onde. Stiamo costruendo un futuro di menti addomesticate, incapaci di immaginare un mondo diverso da quello prescritto.

Oltre la Propaganda: Possiamo Ancora Salvare il Pensiero Critico?
Di fronte a un quadro così desolante, la tentazione è quella di gettare la spugna. Ma sarebbe un errore. L’analisi di Fazi non è solo una diagnosi, è anche un invito all’azione. La prima mossa è la consapevolezza: capire questi meccanismi è il primo passo per neutralizzarli.
Cosa si può fare concretamente? Si potrebbe iniziare a chiedere una riforma radicale dei sistemi di finanziamento, spingendo per modelli che, come in Giappone, premino la ricerca in modo “cieco”, basandosi unicamente sul merito scientifico e non sull’allineamento politico. Si potrebbero creare comitati di valutazione veramente indipendenti, composti da accademici di diverse scuole di pensiero.
Ma la vera battaglia è culturale. Dobbiamo tornare a difendere il valore del dubbio, dell’eresia intellettuale, della ricerca che non serve a confermare ciò che già sappiamo, ma a scoprire ciò che non osiamo chiedere.
La prossima volta che senti un “esperto” in TV, chiediti: chi finanzia la sua ricerca? La prossima volta che leggi di un progetto universitario, chiediti: a quale agenda risponde? E soprattutto, continuiamo a porci la domanda che aleggia in tanti corridoi universitari: l’accademia è ancora il luogo dove si cerca la verità, o è diventata la fabbrica dove la si produce su commissione?
La risposta a questa domanda determinerà non solo il futuro della nostra conoscenza, ma anche quello della nostra democrazia.

