Immaginate di camminare per le strade di una delle grandi capitali industriali della Ruhr o del Baden-Württemberg nel dicembre 2025. Le luci dei mercatini di Natale sono accese, l’atmosfera sembra quella di sempre, eppure c’è una tensione palpabile, un non detto che serpeggia tra i capannoni industriali e gli uffici direzionali. Se guardassimo oltre la superficie, oltre le dichiarazioni rassicuranti dei portavoce governativi, vedremmo i grafici di un paziente che fatica a rialzarsi dal letto.
Siamo abituati a pensare alla Germania come alla “locomotiva d’Europa”, il motore inarrestabile che traina il continente. Ma cosa succede quando la locomotiva gira a vuoto per quattro anni consecutivi? La crisi economica Germania 2025 non è un evento improvviso, ma il culmine di un processo lento e, secondo alcuni osservatori attenti come l’economista Heiner Flassbeck, dolorosamente prevedibile.
Non stiamo parlando di una semplice flessione ciclica. I dati di fine 2025 ci raccontano una storia più complessa, fatta di paradossi contabili, di una scommessa rischiosa sull’industria della difesa e di un’ipocrisia di fondo che rischia di minare le fondamenta stesse dell’Unione Europea. Per capire davvero cosa sta accadendo, dobbiamo smettere di guardare solo i titoli dei telegiornali e iniziare a leggere tra le righe dei bilanci e delle strategie macroeconomiche.

La recessione nascosta: perché gli ordini industriali non ripartono?
Se c’è un indicatore che funge da canarino nella miniera per l’economia tedesca, questo è il volume degli ordini all’industria manifatturiera. Alla fine del 2025, la situazione appare desolante. Nonostante la retorica di un “autunno delle riforme”, i numeri pubblicati dall’Ufficio Federale di Statistica mostrano che il cuore produttivo del paese batte a un ritmo da recessione strutturale.
Se escludiamo le fluttuazioni stagionali e guardiamo al trend di lungo periodo, l’economia tedesca si trova in una valle da cui non riesce a risalire dal 2022. È un record negativo storico: mai due governi consecutivi si erano mostrati così incapaci di diagnosticare il problema fondamentale, ovvero una carenza cronica di domanda.
Tuttavia, c’è un’eccezione statistica che rischia di trarre in inganno gli analisti meno attenti. Nel mare piatto della stagnazione, un settore mostra picchi verticali: la costruzione di “veicoli vari” e munizioni. In parole povere: il riarmo. Il Ministero dell’Economia si affretta a sottolineare come i grandi ordini legati alla difesa stiano sostenendo il dato aggregato. Ma è davvero una buona notizia? O è un miraggio contabile che nasconde la debolezza del resto dell’economia civile?
L’errore fondamentale, come sottolinea Flassbeck nelle sue analisi di dicembre 2025, risiede nel credere che ogni euro speso abbia lo stesso valore moltiplicatore. Non è così. Un’economia che si regge sulle stampelle delle commesse militari mentre il resto del tessuto produttivo langue è un’economia fragile, che sta drogando le proprie statistiche senza curare la malattia sottostante.

Economia di guerra o spreco di risorse? Il paradosso della produttività
Qui entriamo nel cuore teorico della questione, un punto che spesso sfugge al dibattito mainstream. Perché la spesa militare non stimola l’economia allo stesso modo di un investimento industriale tradizionale?
Per capirlo, dobbiamo visualizzare due scenari.
Nel primo scenario, un’azienda investe in un nuovo macchinario automatizzato. Certo, c’è un costo iniziale (reddito per chi costruisce la macchina), ma poi quella macchina verrà utilizzata per anni per produrre beni in modo più efficiente, abbassando i costi e aumentando il benessere collettivo. Si genera, cioè, un aumento di produttività futura.
Nel secondo scenario, lo Stato ordina carri armati e munizioni. Anche qui c’è un reddito iniziale per i lavoratori e profitti per le aziende belliche (il “primo round”). Ma cosa succede dopo?
Le armi sono, economicamente parlando, capitale morto. Una volta prodotte, finiscono in un arsenale a prendere polvere o vengono distrutte in esercitazioni e conflitti. Non generano nulla. Non migliorano l’efficienza del sistema paese. Anzi, sottraggono acciaio, elettronica avanzata e, soprattutto, capitale umano qualificato (ingegneri, tecnici) a settori che potrebbero innovare per il futuro civile.
In un contesto geopolitico dove la deterrenza convenzionale contro potenze nucleari appare sempre più come un vicolo cieco strategico, questo tipo di produzione diventa, agli occhi di una critica economica rigorosa, la forma più “inutile” di utilizzo delle risorse. La Germania sta sacrificando la sua capacità di generare ricchezza futura sull’altare di una spesa che peggiora il bilancio climatico e non crea valore aggiunto sostenibile.

Il ritorno del dumping salariale: la Germania vuole “fregare” di nuovo i partner?
Mentre l’industria civile soffre, riemerge una tentazione pericolosa nelle stanze dei bottoni a Berlino: quella di ripetere la ricetta dei primi anni 2000. All’epoca, la Germania uscì dalla stagnazione attraverso riforme del lavoro draconiane (la famosa Agenda 2010) che compressero i salari reali.
L’idea che sembra circolare nuovamente tra alcuni ministri e decisori politici è quella di abbassare il costo del lavoro e i contributi sociali per recuperare competitività. Flassbeck nota come venga spesso mostrato con orgoglio il grafico del calo della disoccupazione post-riforme, dimenticando però di mostrare l’altra faccia della medaglia: l’esplosione dei surplus delle partite correnti.
Perché questo è un problema per noi, per l’Italia o la Francia?
Perché in un’unione monetaria come l’Eurozona, dove non si possono svalutare le monete nazionali, fare dumping salariale (tenere i salari artificialmente bassi rispetto alla produttività) equivale a barare. Significa rubare quote di mercato ai vicini non perché si è più bravi a produrre, ma perché si “affamano” i propri lavoratori, riducendo le importazioni e massimizzando l’export.
Se la Germania del 2025 decide di imboccare nuovamente questa strada, sperando che gli Stati Uniti (magari sotto una nuova amministrazione protezionista) o i partner europei non se ne accorgano, sta giocando col fuoco. È una strategia miope, definita da alcuni come “beggar-thy-neighbor” (impoverisci il tuo vicino), che ha già creato enormi squilibri in passato e che oggi potrebbe essere politicamente insostenibile.

Il doppio standard europeo: Cina cattiva, Germania buona?
C’è un episodio recente che illumina perfettamente l’ipocrisia che circonda il dibattito economico globale. Nel dicembre 2025, i media internazionali e leader come il presidente francese Macron hanno puntato il dito contro la Cina, colpevole di aver raggiunto un surplus commerciale record di 1000 miliardi di dollari.
“Insostenibile!”, gridano da Parigi e Bruxelles, minacciando dazi e ritorsioni
Ma prendiamo la calcolatrice e facciamo un esercizio di onestà intellettuale, comparando le mele con le mele. I numeri assoluti spaventano, ma in economia contano le proporzioni.
Il surplus cinese, se rapportato al suo immenso PIL, si attesta intorno al 5,2%.
E la Germania? Il “buon vicino” europeo?
Nonostante la crisi, il surplus commerciale tedesco veleggia ancora verso il 5,8% del PIL (o poco meno, a seconda delle stime sull’impatto dei dazi americani).
Siamo di fronte a un paradosso clamoroso. La Germania viola le regole macroeconomiche sugli squilibri con percentuali peggiori di quelle cinesi, eppure il dibattito europeo tace. Perché Macron va a Pechino a dare lezioni ma non convoca una conferenza stampa per denunciare lo squilibrio tedesco?

Il Mercato Unico come “promessa infranta”
Questo doppio standard non è solo una questione di equità astratta; è il veleno che intossica il Mercato Unico Europeo. Un sistema di cambi fissi (come l’Euro) o un mercato unico si basa su una promessa implicita: nessun paese cercherà di ottenere vantaggi competitivi artificiali a danno degli altri.
Se un paese accumula surplus commerciali cronici per decenni, significa che sta vendendo agli altri molto più di quanto acquista, drenando domanda dai partner. In un sistema di libero scambio “normale”, i paesi colpiti reagirebbero imponendo dazi compensativi o lasciando che la valuta del paese in surplus si apprezzi. Nell’Eurozona, questi meccanismi sono bloccati.
La Germania ha utilizzato l’Euro per blindare il proprio vantaggio competitivo, accumulando crediti verso l’estero e costringendo il Sud Europa a dolorose svalutazioni interne (austerità). La critica di Flassbeck è tagliente: se i patti sono stati violati dal mercantilismo tedesco, allora teoricamente gli altri partner avrebbero il diritto morale ed economico di proteggersi, trattando la Germania non come un partner, ma come un competitor sleale.

Domande per il futuro: quale Europa ci attende?
Di fronte a questo scenario di crisi economica in Germania nel 2025, sorgono spontanee alcune domande che dovrebbero guidare il dibattito nei prossimi mesi:
- Quanto può durare l’illusione militare? Fino a quando i governi potranno mascherare la debolezza della domanda interna con commesse di armamenti che non generano benessere diffuso?
- L’Europa aprirà gli occhi? I partner europei continueranno ad accettare passivamente il modello mercantilista tedesco, o la pressione congiunta di una crisi interna e delle tensioni globali costringerà Berlino a cambiare rotta, stimolando finalmente i consumi e i salari interni?
- La sostenibilità del debito e degli investimenti: Se la Germania continua a rifiutare investimenti produttivi civili in nome di un pareggio di bilancio fittizio o di spese militari improduttive, come potrà mantenere la sua eccellenza tecnologica nei prossimi decenni?

Conclusione: Oltre i numeri, la necessità di una nuova visione
La situazione tedesca di fine 2025 non è solo una questione di numeri rossi o neri sul bilancio dello Stato. È la spia di un modello economico che ha smarrito la bussola. La combinazione di austerità interna, dipendenza dall’export e ora la fuga in avanti verso un’economia di guerra “sterile” sta creando una miscela tossica.
Per gli osservatori, per gli investitori e per i cittadini europei, capire la crisi tedesca significa capire che il vecchio mondo – quello in cui bastava comprimere i salari per crescere – è finito. Senza una ripresa della domanda interna genuina e senza investimenti che aumentino la produttività reale (infrastrutture, educazione, transizione energetica vera), la locomotiva rischia di rimanere ferma sul binario morto, mentre il resto del mondo corre altrove.
Forse è arrivato il momento di smettere di guardare alla Cina come unico capro espiatorio e iniziare a guardare, con onestà critica, dentro i confini della nostra Unione. Voi cosa ne pensate? Credete che il riarmo possa davvero sostituire l’industria civile come motore di crescita, o stiamo assistendo a un gigantesco errore di calcolo storico?

