C’è un momento in cui le certezze crollano. Quando ciò che sembrava solido, inossidabile, eterno, inizia a scricchiolare sotto il peso delle proprie contraddizioni. La Germania – quella Germania dei grandi marchi automobilistici, delle macchine utensili esportate in tutto il mondo, della chimica avanzata – sta vivendo proprio questo momento. La recessione che attraversa la Germania nel 2025 non è un incidente di percorso. È la fine di un’epoca.
Per chi osserva l’economia europea da fuori, potrebbe sembrare un episodio passeggero. Un trimestre negativo, poi un altro, poi la ripresa. Ma chi segue da vicino le analisi pubblicate sulle principali testate economiche tedesche sa che questa volta è diverso. Dieci trimestri su dodici in contrazione o stagnazione. Non è una crisi ciclica. È una crisi strutturale che nessuno vuole chiamare con il suo vero nome.
E mentre la politica tedesca ed europea discute di burocrazia, competitività e riforme dell’offerta, la domanda reale resta sospesa nell’aria come un fantasma: cosa succede quando la più grande economia europea smette di crescere? E soprattutto, perché proprio ora, in un momento in cui avrebbe dovuto guidare la transizione verde e digitale del continente?

Il Declino Industriale Tedesco: Quando i Giganti Perdono Equilibrio
La forza della Germania è sempre stata la sua industria manifatturiera. Macchine. Automobili. Chimica. Acciaio trasformato in valore. Ma oggi quei tre pilastri – automotive, ingegneria meccanica, chimica – stanno cedendo contemporaneamente.
Prendiamo l’automotive. La crisi che sta travolgendo il settore automobilistico tedesco nel 2025 non è solo una questione di numeri in calo, è una crisi di identità. Sul mercato cinese, la quota di mercato dei tre colossi tedeschi è crollata dal 22,6% al 16,7% in due anni. Nelle auto elettriche i dati sono drammatici: Volkswagen -21%, BMW -37%, Mercedes -58%.
I produttori tedeschi hanno sottovalutato la velocità dei competitor cinesi. Mentre a Wolfsburg si discuteva di piattaforme, a Shenzhen si producevano già milioni di BYD, NIO, XPeng. Auto funzionali, economiche, che i consumatori vogliono comprare.
Il problema non è solo la Cina. L’export verso gli USA è diminuito del 26% rispetto al decennio precedente. Ora arrivano i dazi di Trump (15% sulle auto): per un settore già in difficoltà, è un colpo che rischia di essere fatale.

Perché la Germania È in Recessione: Le Radici Profonde di una Crisi Annunciata
Le cause del declino industriale tedesco affondano in scelte strategiche sbagliate, non in fluttuazioni temporanee del mercato.
Prima causa: il disastro energetico. La dipendenza dal gas russo a basso costo permetteva alla chimica tedesca di essere competitiva. Dopo la guerra in Ucraina, il gas è diventato tre-quattro volte più caro. L’industria chimica ha visto crollare la produzione: -10% (2022), -11% (2023), -5% (Q2 2025). Gli impianti lavorano al 71% della capacità, sotto la soglia di redditività (82%). Si parla di livelli “deboli come nel 1991”.
Seconda causa: miopia strategica. Mentre Tesla costruiva Gigafactory, i tedeschi perfezionavano motori diesel. Quando il mercato è cambiato, si sono trovati impreparati. C’è chi prevede che VW, BMW e Mercedes potrebbero non esistere più nella forma attuale entro fine decennio.
Terza causa: ideologia liberista. Come scrive Heiner Flassbeck sul suo sito, Germania ed Europa credono ciecamente nelle forze del mercato. La risposta alle crisi è sempre: tagliare burocrazia, aumentare competitività. Ma nessuno si chiede: e se il problema fosse la mancanza di domanda? Se la recessione si autoalimenta perché nessuno interviene?

I Dazi di Trump: Come Washington Sta Accelerando il Collasso Manifatturiero
L’amministrazione Trump ha lanciato una guerra commerciale che colpisce duramente. Le tariffe imposte da Washington stanno devastando tutti e tre i settori chiave dell’industria tedesca.
Sulle automobili: 15%. Ma il peggio riguarda i macchinari. La meccanica tedesca esporta negli USA per 27,4 miliardi di euro annui (contro 17,7 in Cina e 13,3 in Francia). Washington ha esteso i dazi del 50% sull’acciaio anche ai prodotti che lo contengono: macchine utensili, presse, robot. Il 56% dell’export tedesco di macchinari è colpito.
L’associazione di categoria (VDMA) parla di “fallo continuo”. Ma l’UE non reagisce. L’accordo commerciale con Washington permette agli USA di esportare in Europa senza dazi, mentre l’Europa subisce tariffe punitive. Asimmetria totale a favore degli americani.
Risultato concreto: ordini meccanica -24% (settembre 2025), -27% extra-eurozona. Produzione -7% (2024), previsto -5% (2025). Gli effetti della guerra commerciale di Trump sulla Germania sono devastanti e destinati a peggiorare.

Cosa Significa per l’Italia: Quando il Partner Principale Crolla
Qualcuno potrebbe pensare: “Problema loro. Noi italiani abbiamo i nostri guai”. Ma quando la Germania entra in recessione, le conseguenze per l’Italia sono immediate e drammatiche. La Germania è il nostro primo partner commerciale. Assorbe circa il 13% delle nostre esportazioni. Quando Wolfsburg rallenta la produzione, le aziende italiane della componentistica automotive (Piemonte, Emilia, Veneto) perdono ordini. Quando Siemens taglia gli investimenti, le PMI lombarde che forniscono semilavorati soffrono.
C’è poi un effetto più sottile ma altrettanto pericoloso: se la locomotiva europea si ferma, tutto il treno rallenta. L’Italia cresce – quando cresce – anche grazie alla domanda tedesca. Se Berlino entra in una recessione prolungata, il nostro export cala, le nostre imprese licenziano, il nostro PIL stagna. È un gioco a somma negativa da cui nessuno esce vincitore.
E c’è un altro aspetto: la tenuta dell’euro. La moneta unica funziona se le economie principali dell’Eurozona crescono a ritmi simili. Se la Germania resta ferma per anni mentre altri Paesi cercano di espandersi, le tensioni aumentano. La BCE deve decidere se tenere i tassi alti per contenere l’inflazione (penalizzando chi è debole) o abbassarli per sostenere la crescita (rischiando nuove bolle). In mezzo ci siamo noi, con un debito pubblico enorme e margini di manovra limitati.

Il Paradosso delle Politiche Economiche: Curare la Domanda o l’Offerta?
Qui arriviamo al cuore del problema. Perché la politica tedesca ed europea non interviene? La risposta è ideologica prima che tecnica. L’economia mainstream – quella insegnata nelle università, praticata dalle banche centrali, predicata dalle istituzioni internazionali – sostiene che le crisi si risolvono con riforme strutturali. Più flessibilità, meno vincoli, meno Stato.
Ma Heiner Flassbeck, economista di lungo corso ed ex funzionario del Ministero delle Finanze tedesco, ha una visione opposta. Sul suo sito scrive che il vero problema è la mancanza di politiche anticicliche. Quando l’economia rallenta, servono investimenti pubblici, stimoli fiscali, interventi che rilancino la domanda. Altrimenti, le aziende vedono crollare gli ordini, tagliano la produzione, licenziano. I lavoratori spendono meno, la domanda cala ulteriormente. È una spirale discendente che si autoalimenta.
Flassbeck cita una lezione fondamentale: negli anni ’30, la Grande Depressione fu così devastante proprio perché i governi credettero che il mercato si sarebbe autoregolato. Non lo fece. E la crisi si trasformò in catastrofe sociale e poi politica. Oggi, settant’anni dopo Keynes, con tutta la conoscenza economica accumulata, stiamo commettendo lo stesso errore. Parliamo di competitività e innovazione mentre l’economia reale affonda.
C’è un dato che fa riflettere: in dieci degli ultimi dodici trimestri, il PIL tedesco è sceso o è rimasto piatto. Non è mai successo nella storia della Repubblica Federale. Eppure, il dibattito politico è su altro: burocrazia, pensioni, immigrazione. Come se si potesse ignorare il fatto che la base produttiva del Paese sta implodendo.

Investimenti Privati: Il Nodo Che Nessuno Vuole Sciogliere
Recentemente, alcuni leader politici tedeschi hanno scoperto – con decenni di ritardo – che mancano gli investimenti privati. È una rivelazione? No, è una constatazione ovvia per chiunque guardi i dati. Ma la domanda vera è: perché le imprese non investono?
La risposta liberista è sempre la stessa: troppi vincoli, troppe tasse, troppa burocrazia. Togliamo ostacoli e gli investimenti torneranno. Ma questa è una visione meccanicistica dell’economia che ignora un fatto elementare: le aziende investono quando vedono opportunità di profitto. E le opportunità di profitto ci sono quando c’è domanda, quando gli impianti lavorano a pieno regime, quando i mercati crescono.
Oggi la capacità produttiva è sottoutilizzata. Gli impianti chimici lavorano al 71%. Gli ordini della meccanica calano del 24%. L’automotive perde quote di mercato. In questo contesto, quale imprenditore sano di mente investirebbe in nuovi macchinari? Servirebbe prima rilanciare la domanda, far girare l’economia, riempire i portafogli ordini. Poi gli investimenti arriverebbero da soli.
Ma per rilanciare la domanda serve spesa pubblica. Infrastrutture, transizione ecologica, ricerca, istruzione. Tutti ambiti in cui la Germania ha sottoinvestito per anni, ossessionata dal pareggio di bilancio e dal freno al debito. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: un’economia che si contrae mentre il dibattito resta intrappolato in dogmi ideologici.

Il Futuro della Manifattura Europea: C’È Ancora Spazio per la Germania?
Guardando avanti, è difficile essere ottimisti. I produttori cinesi hanno un vantaggio tecnologico e di scala difficile da recuperare. Negli USA Tesla domina, in Europa arriva BYD. I dazi americani penalizzano l’export tedesco, mentre la concorrenza cinese cresce sul mercato interno.
Nella chimica, il problema energetico è irrisolvibile nel breve: gas USA troppo caro, rinnovabili insufficienti, nucleare tabù. La BASF sposta produzioni in Cina e USA, dove l’energia costa meno.
Nella meccanica: concorrenza asiatica low-cost + dazi USA sul mercato più redditizio = spirale discendente.
Si parla di “reindustrializzazione” e “sovranità tecnologica”, ma sono slogan vuoti senza risorse. L’Europa ha soldi, competenze, università. Manca una visione strategica e il coraggio di rompere con i dogmi liberisti.

La Lezione Che Non Vogliamo Imparare
C’è una lezione profonda in tutto questo, una lezione che viene dalla storia economica del Novecento ma che continuiamo a ignorare: i mercati non si autoregolano. Le crisi non si risolvono da sole. Serve l’intervento pubblico, servono politiche espansive, serve una visione di lungo periodo.
Negli anni ’30, fu necessaria una guerra mondiale e la conseguente ricostruzione per uscire dalla Depressione. Negli anni ’70, dopo lo shock petrolifero, i Paesi che meglio reagirono furono quelli che investirono in nuove tecnologie e diversificazione energetica. Oggi, la Germania e l’Europa rischiano di ripetere gli errori del passato: credere che basti “lasciare fare al mercato” e tutto si risolverà.
Ma il mercato, lasciato a sé stesso, premia i più forti e schiaccia i più deboli. Premia la Cina, che investe massicciamente in tecnologia e infrastrutture. Premia gli Stati Uniti, che proteggono le proprie industrie con dazi e sussidi. E penalizza l’Europa, che si lega le mani con regole fiscali rigide e dogmi ideologici.
La recessione che la Germania sta attraversando nel 2025 non è un incidente. È il frutto di scelte politiche ed economiche precise. E finché quelle scelte non cambieranno, la crisi continuerà. Con buona pace di chi crede ancora nei miracoli del libero mercato.

Domande Aperte per il Futuro
Cosa succederebbe se la Germania decidesse davvero di investire massicciamente in transizione verde, digitale, infrastrutture? Potrebbe essere il motore di una nuova fase di crescita europea, o ormai è troppo tardi?
E se i tre colossi dell’automotive tedesco davvero scomparissero entro la fine del decennio, come alcuni economisti prevedono, quali sarebbero le conseguenze per l’intera economia europea? Parliamo di milioni di posti di lavoro, diretti e indiretti, dalla Germania alla Polonia, dall’Italia alla Spagna.
C’è poi una domanda più profonda: possiamo ancora permetterci di credere che le crisi economiche si risolvano da sole? O è arrivato il momento di rimettere al centro la politica economica attiva, gli investimenti pubblici, la pianificazione strategica?
La recessione che sta vivendo la Germania nel 2025 è uno specchio in cui l’Europa intera dovrebbe guardarsi. Quello che vediamo non è bello. Ma forse, proprio per questo, è il momento di cambiare direzione. Prima che sia troppo tardi.

