Immagina di svegliarti una mattina di luglio, magari nel 2025. Prendi il caffè, scorri le notizie sullo smartphone e ti imbatti in un titolo che ti gela il sangue: “Storico accordo commerciale tra Unione Europea e Stati Uniti”. Sulle prime pensi a una buona notizia, a una tregua dopo anni di tensioni. Poi inizi a leggere i dettagli e il caffè ti diventa amaro in bocca. Dazi punitivi del 15% su tutto ciò che esportiamo oltreoceano, mentre le merci americane entrano da noi senza barriere. Un impegno a comprare gas e petrolio americani per cifre astronomiche, quasi 750 miliardi di dollari. La rinuncia a tassare i giganti del web.

Non è un accordo tra pari. Suona più come un atto di resa.

Questa non è la cronaca di un evento reale, ma un esperimento mentale basato sulle analisi taglienti che circolano in alcuni circoli critici tedeschi. Testate come ad esempio le NachDenkSeiten o Relevante Ökonomik dipingono uno scenario futuro che, per quanto ipotetico, affonda le sue radici in dinamiche fin troppo attuali. Ed è esplorando questo scenario che possiamo davvero capire quali sarebbero le conseguenze di un accordo UE-Trump di questo tipo. Non si tratterebbe solo di economia, ma del futuro stesso della nostra identità e della nostra sovranità.

mercantilismo tedesco

La Melodia Stranamente Familiare di una Capitolazione Annunciata

Per capire la portata di un simile patto, dobbiamo prima guardarne i contorni. La narrazione critica tedesca descrive un accordo dove l’UE, guidata da una Commissione presieduta da Ursula von der Leyen, non si limita a subire le condizioni americane, ma sembra quasi abbracciarle. L’Europa si impegnerebbe a diventare il più grande cliente energetico degli Stati Uniti, sostituendo le fonti russe con il più costoso e inquinante gas liquefatto (GNL) americano.

In un articolo su NachDenkSeiten, il giornalista Tobias Riegel definisce una mossa del genere “autodistruzione”. E il suo punto è tagliente: come può un’istituzione, creata per difendere gli interessi di quasi 450 milioni di cittadini, approvare politiche che sembrano progettate per danneggiarli? L’aumento dei costi energetici, la perdita di competitività delle nostre industrie, la deindustrializzazione strisciante. Per Riegel, la spiegazione non è economica, ma geopolitica. Si tratterebbe di una scelta deliberata di sottomissione strategica agli interessi di Washington, mascherata da necessità.

Questa visione è potente perché sposta il focus dal “cosa” al “perché”. Non stiamo più parlando di un negoziato andato male, ma di un presunto tradimento degli interessi europei. Come ha scritto polemicamente l’eurodeputato Martin Sonneborn in un suo intervento, sembra quasi che alcuni leader europei stiano conducendo una “guerra non PER, ma CONTRO l’Unione Europea”.

mercantilismo germania

Il Peccato Originale: Perché Trump Avrebbe Vita Facile con l’Europa

La rabbia e la frustrazione per un accordo così svantaggioso sono comprensibili. Ma sarebbe un errore, secondo l’economista Heiner Flassbeck, fondatore del blog Relevante Ökonomik, pensare che la colpa sia solo di un presidente americano prepotente. Flassbeck offre una prospettiva più profonda e, per certi versi, più scomoda. La debolezza negoziale dell’Europa non nascerebbe dal nulla, ma sarebbe il risultato di decenni di politiche economiche miopi portate avanti da alcuni dei suoi stessi membri, in primis la Germania.

Pensa a un maratoneta che per vincere una gara decide di non mangiare per una settimana. Arriverà al traguardo magrissimo, forse anche primo, ma completamente sfinito e vulnerabile. Secondo Flassbeck, questo è ciò che la Germania ha fatto alla sua economia (e di riflesso a quella europea) per vent’anni. È il concetto di “mercantilismo”: per rendere le proprie esportazioni imbattibili, la Germania ha sistematicamente compresso i salari interni e la domanda interna. In pratica, ha chiesto ai propri lavoratori di stringere la cinghia per permettere alle sue aziende di vendere di più all’estero.

Il risultato? Enormi surplus commerciali per la Germania e squilibri colossali per tutti gli altri, inclusi i partner europei e gli Stati Uniti. La furia commerciale di Trump, in quest’ottica, non è un capriccio, ma il conto presentato dopo vent’anni di una festa a cui solo pochi erano davvero invitati. L’America, con il suo enorme deficit commerciale, si sentirebbe la vittima di una concorrenza sleale e la sua reazione, per quanto brutale, diventerebbe quasi una conseguenza logica. È una lettura amara, perché suggerisce che l’Europa, o almeno una sua parte, si è messa da sola nella condizione di essere ricattata. Il bullo ha gioco facile quando la sua vittima si è indebolita da sola.

heiner flassbeck

L’Anatomia di una Resa: le Tre Grandi Paure Europee

Se le radici del problema sono profonde, le cause immediate di una simile capitolazione, secondo l’analisi del blog Lost in EUrope, sarebbero riconducibili a tre grandi paure che paralizzano Bruxelles.

La prima è la paura di una guerra commerciale totale. “Abbiamo evitato il peggio”, direbbero i comunicati ufficiali. Ma sarebbe una mezza verità. La guerra commerciale, con i dazi sull’acciaio e le altre misure, è già in corso da anni. Non combattere non significa evitarla, significa semplicemente perderla senza neanche aver provato a difendersi.

La seconda, più sottile ma forse più potente, è la paura della Russia. La narrazione di una minaccia esistenziale proveniente da Est, amplificata dagli stessi leader europei, li avrebbe resi psicologicamente ricattabili. È un meccanismo perverso: ti convinco che hai bisogno della mia protezione e poi ti presento un conto salatissimo. In questo scenario, Trump non farebbe altro che sfruttare questa debolezza, trasformando l’alleanza atlantica in un sistema di “pizzo” geopolitico. Paghi per la protezione, ma il prezzo lo decido io e include la tua sottomissione economica.

Infine, c’è la terza e più concreta leva: la dipendenza tedesca dall’export. Nessun paese europeo è così legato a doppio filo al mercato americano come la Germania. Ho un amico che lavora in una media impresa metalmeccanica in Baviera, scrive un commentatore. Mi raccontava che quasi il 40% del loro fatturato dipende da un singolo cliente in Ohio. Per loro, l’idea di dazi del 15% non è un problema macroeconomico, è la prospettiva concreta del fallimento. Moltiplica questa storia per migliaia di aziende e capisci perché un Cancelliere tedesco, per quanto forte, avrebbe le mani legate. Trump, sapendo questo, avrebbe la leva perfetta per piegare non solo Berlino, ma l’intera Unione.

eurocrisi intervista ad hans werner sinn

Le Conseguenze sulla Nostra Vita: Quando la Geopolitica Entra in Bolletta

Tutto questo può sembrare un gioco per giganti, una partita a scacchi combattuta sopra le nostre teste. Ma le conseguenze di un accordo UE-Trump di questo tipo arriverebbero dritte nelle nostre case, sui nostri conti in banca e nelle nostre prospettive di vita.

La prima conseguenza, la più immediata, sarebbe il costo dell’energia. Abbandonare fonti più economiche per legarsi mani e piedi al GNL americano significa una cosa sola: bollette più alte per tutti. Per le famiglie, vorrebbe dire meno soldi a fine mese. Per le imprese, specialmente quelle energivore come la ceramica, la chimica o la siderurgia, sarebbe un colpo mortale. Ho letto di recente un commento su un forum di imprenditori: “Stiamo competendo con aziende cinesi che pagano l’energia un terzo di noi. Come possiamo sopravvivere?”. È la domanda che definisce il nostro futuro industriale.

Questo ci porta alla seconda, e più spaventosa, conseguenza: la de-industrializzazione. Un’Europa con energia cara e accesso limitato al suo più grande mercato di sbocco diventerebbe un luogo poco attraente per produrre. Le aziende non chiuderebbero dall’oggi al domani. Semplicemente, smetterebbero di investire qui. Il nuovo stabilimento lo aprirebbero in Texas, non in Lombardia. La nuova linea di produzione in Tennessee, non in Sassonia. E lentamente, pezzo dopo pezzo, il nostro tessuto produttivo si sfalderebbe. I posti di lavoro qualificati, quelli per ingegneri, tecnici, operai specializzati, migrerebbero altrove.

E infine, la conseguenza più profonda: la perdita di futuro. Un’Europa che rinuncia alla propria sovranità, che non è in grado di definire una politica industriale autonoma e che accetta un ruolo subalterno sulla scena mondiale, che tipo di futuro può offrire ai suoi giovani? Diventeremmo, come ha scritto qualcuno con amaro sarcasmo, “un meraviglioso museo a cielo aperto, con ottimi ristoranti e un welfare in declino”. Un luogo piacevole in cui vivere, forse, ma non un luogo in cui creare, innovare e costruire il domani.

Questo scenario, per quanto ipotetico, non è fantascienza. È un avvertimento. Le analisi critiche che arrivano dalla Germania non sono semplici esercizi di stile, ma un invito a guardare con lucidità alle dinamiche di potere che stanno plasmando il nostro mondo. Le conseguenze di un accordo UE-Trump andrebbero ben oltre i dazi e le quote di importazione. Metterebbero in discussione l’essenza stessa del progetto europeo: un’unione di stati sovrani capaci di agire come una potenza autonoma, o una semplice somma di interessi deboli, pronti a piegarsi al primo soffio di vento transatlantico. La risposta a questa domanda definirà il nostro secolo.