Durante un dibattito pubblico organizzato da Der Spiegel e pubblicato su YouTube, Ole Nymoen, giornalista e autore del best seller “Warum ich niemals für mein Land kämpfen würde” (“Perché non combatterei mai per il mio paese”), ha proposto una riflessione tagliente sull’evoluzione della politica militare in Germania. Le sue parole, decise e controcorrente, mettono in discussione il crescente entusiasmo attorno al riarmo e alla centralità della Bundeswehr nella narrazione pubblica. Per Nymoen, il militarismo non è solo una questione di strategia, ma una costruzione culturale, simbolica e profondamente politica.

La Germania e la nuova centralità delle forze armate
Dopo l’invasione russa dell’Ucraina, la Germania ha accelerato con decisione il rafforzamento delle proprie capacità militari. Il governo ha aumentato le spese per la difesa e promosso una Bundeswehr più visibile e presente nello spazio pubblico. Per Nymoen, però, questi sviluppi raccontano più di un semplice adeguamento tattico: sono il segnale di una deriva che rischia di normalizzare il pensiero militare come orizzonte dominante.
Chi prova a sollevare dubbi o a proporre strade alternative si trova spesso messo all’angolo, visto con sospetto o liquidato come ingenuo. Il dibattito pubblico appare irrigidito, quasi impermeabile a voci fuori dal coro.

La Bundeswehr come simbolo culturale
Uno degli aspetti più controversi sottolineati da Nymoen riguarda il modo in cui la Bundeswehr viene presentata: non più solo come un’istituzione militare, ma come una sorta di brand nazionale. Inclusività, giustizia, modernità: l’esercito si ammanta di valori che mirano a renderlo simpatico, necessario, inevitabile.
Ma, ammonisce Nymoen, questa narrazione rischia di trasformare la guerra in un gesto estetico. Le campagne comunicative edulcorano la realtà, cancellano la brutalità del conflitto e producono consenso attraverso immagini patinate. L’uniforme, così, smette di evocare la violenza per diventare un simbolo identitario, quasi rassicurante. È questo lo scarto che preoccupa.

Il linguaggio come campo di battaglia
Nymoen insiste sul fatto che la guerra inizia prima dei fucili: comincia con le parole. Il lessico militare, sempre più presente nei media, nei talk show e nei social, plasma il modo in cui la società pensa la sicurezza. Si parla di “resilienza bellica”, di “minacce ibride”, di “superiorità tecnologica” – come se la grammatica della guerra fosse già diventata il nostro modo naturale di pensare.
Così facendo, si riduce lo spazio per concetti come cooperazione, diplomazia, disarmo. La sicurezza viene associata solo alla forza, e ogni alternativa appare automaticamente debole, utopica, fuori tempo.

Sfidare il pensiero binario
Quando Nymoen propone un approccio non armato alla difesa nazionale, non lo fa per idealismo ma per realismo. La sua critica tocca un punto centrale: l’illusione che ci sia solo una scelta tra militarizzazione o impotenza. Questo tipo di pensiero binario impedisce una discussione articolata.
Sostenere posizioni pacifiste non significa rifiutare la realtà, ma chiedersi se ci sia una via d’uscita dal circolo vizioso della deterrenza, delle escalation, delle spese militari in costante aumento. La pace, per Nymoen, non è una condizione naturale, ma un progetto che richiede volontà politica, strategia e visione.

Il rischio del consenso automatico
Oggi, chi critica la politica di riarmo viene spesso accusato di ingenuità o, peggio, di complicità con l’aggressore. È una logica che soffoca il dissenso e rafforza un clima culturale in cui il conflitto diventa l’unica risposta possibile.
Ma Nymoen non si lascia intimidire. Rivendica il diritto alla critica anche in tempi difficili, perché è proprio nei momenti di crisi che il pensiero libero diventa più necessario. Il pacifismo, nella sua visione, non è un rifugio etico, ma una forma di resistenza culturale.
Oltre la critica: costruire alternative
Non basta dire no alla guerra, insiste Nymoen. Serve un lavoro concreto per costruire alternative. Questo significa investire nella diplomazia, nella cooperazione internazionale, nella mediazione dei conflitti. Significa anche destinare risorse all’educazione alla pace e alla giustizia sociale, perché le radici della guerra sono spesso economiche, culturali, strutturali.
Ogni euro speso in armamenti è un euro sottratto a scuole, ospedali, infrastrutture civili. Ogni investimento nella guerra è una rinuncia a un futuro diverso. Non si tratta solo di scelte tecniche, ma di una visione complessiva del mondo.

Una voce che manca nel dibattito italiano
Il pensiero di Ole Nymoen ha suscitato grande interesse in Germania, dove ha acceso discussioni vivaci e polarizzanti. In Italia, invece, la sua voce è ancora poco conosciuta. Eppure, proprio in un momento in cui anche il nostro paese rivede la propria postura militare e aumenta le spese per la difesa, le sue riflessioni potrebbero essere di grande utilità.
Nymoen non offre soluzioni facili, ma pone domande scomode. E lo fa con uno stile diretto, documentato, senza indulgere nei toni da tribuna. La sua forza sta nel riportare al centro del discorso politico ciò che spesso viene rimosso: il costo umano, economico e culturale della militarizzazione.
Conclusione
Ole Nymoen ci invita a guardare oltre le apparenze. A non accettare come inevitabile ciò che viene presentato come tale. Il suo contributo non è solo quello di un critico, ma di qualcuno che prova a riaprire spazi di pensiero dove sembravano esserci solo certezze.
In tempi di guerre ibride, di armi intelligenti e di opinioni schierate, questa voce dissonante ci ricorda che la democrazia ha bisogno di dubbi, di confronto, di immaginazione politica. E che la pace non è una parola fuori moda, ma una scelta che richiede coraggio, coerenza e visione.