Ammettiamolo, quando Donald Trump ha iniziato a sventolare la clava dei dazi commerciali contro mezzo mondo, Europa inclusa, la reazione qui nel Vecchio Continente è stata quasi unanime: un misto di sconcerto, indignazione e quell’aria un po’ snob da “noi siamo i civilizzati, lui il barbaro protezionista”. Ci siamo sentiti attaccati, vittime di una politica commerciale rozza e ingiusta. Ma se ci fosse un’altra campana? Una campana scomoda, provocatoria, quasi eretica, suonata non da un populista d’oltreoceano, ma da un economista tedesco, uno che i numeri li conosce bene?

Parliamo di Heiner Flassbeck, e la sua analisi contenuta in un recente articolo è di quelle che fanno saltare sulla sedia. La sua tesi? Tenetevi forte: Trump, con i suoi dazi, potrebbe aver avuto ragione nel puntare il dito, soprattutto contro la Germania. Non solo, ma l’accusa di “mercantilismo” andrebbe ribaltata. I veri mercantilisti, secondo Flassbeck, non sarebbero gli americani con il loro deficit commerciale da capogiro (oltre 1000 miliardi di dollari!), ma proprio quei paesi, Germania in testa, che da decenni accumulano surplus commerciali stratosferici, spesso gongolandosi di questo “successo”.
Sembra folle, vero? Va contro tutto quello che ci siamo raccontati. Eppure, Flassbeck argomenta la sua posizione con una logica stringente, basata su dati e su una rilettura critica delle politiche economiche tedesche degli ultimi 25 anni. Questo post non è una difesa di Trump, sia chiaro. È un invito a esplorare un punto di vista radicalmente diverso, quello di Flassbeck, per capire se dietro le tensioni commerciali transatlantiche ci sia qualcosa di più profondo del capriccio di un presidente. Immergiamoci in questa analisi controcorrente sul mercantilismo Germania e vediamo dove ci porta. Potremmo scoprire che la realtà è molto più complessa (e scomoda) di quanto pensiamo.

Chi Sono i Veri Mercantilisti? Ribaltare il Tavolo delle Accuse
Partiamo dall’accusa principale: mercantilismo. Di solito, pensiamo a un paese che alza muri tariffari per proteggere le proprie industrie e limitare le importazioni. Flassbeck ci dice: alt, state guardando il dito e non la luna. Certo, i dazi USA mirano a ridurre le importazioni americane e quel deficit mostruoso. Ma accusare di mercantilismo un paese con un buco commerciale di quasi il 4% del suo PIL, dice Flassbeck, è da “Narr”, da sciocchi.
I veri mercantilisti, nel suo vocabolario, sono altri. Sono quei paesi che, per anni, per decenni, hanno costruito e mantenuto enormi surplus delle partite correnti. Paesi come la Cina, il Giappone, la Corea del Sud e, sì, in modo particolare, la Germania. Questi paesi, sostiene l’economista tedesco, si meravigliano e si indignano quando il più grande paese debitore del mondo (gli USA) alla fine sbotta e dice “basta, non ce la faccio più a sostenere il vostro modello”. Un modello, quello del surplus cronico, di cui peraltro vanno spesso molto fieri, vedendolo come segno di virtù economica.

Ma come si costruisce un surplus commerciale così grande e persistente? È solo questione di essere “bravi” a esportare? Flassbeck cita direttamente un “Fact Sheet” della Casa Bianca che, a suo dire, coglie perfettamente il punto riguardo alla Germania e agli altri:
“Paesi come Cina, Germania, Giappone e Corea del Sud hanno perseguito politiche che sopprimono il potere di consumo interno dei propri cittadini per aumentare artificialmente la competitività dei loro prodotti di esportazione. Tali politiche includono sistemi fiscali regressivi, sanzioni basse o non applicate per il degrado ambientale e politiche intese a comprimere i salari dei lavoratori rispetto alla produttività.”
Questa, per Flassbeck, è la chiave di volta. Non si tratta solo di vendere tanto all’estero, ma di farlo artificialmente, tenendo volutamente bassa la domanda interna, in particolare attraverso la compressione dei salari. Ed è qui che la critica al mercantilismo Germania diventa specifica e tagliente.

L’”Errore” Tedesco: Come la Germania Ha Costruito il Suo Surplus (e Danneggiato l’Europa)
Pensate all’inizio degli anni 2000. Nasce l’Euro. Un momento di grande speranza, ma anche l’inizio, secondo Flassbeck, di quello che lui chiama “l’errore tedesco”. In quel periodo, con le famose riforme dell’Agenda 2010 sotto il governo rosso-verde di Schröder (politiche poi abbracciate con entusiasmo anche dai cristiano-democratici), la Germania intraprende un percorso ben preciso. L’obiettivo? Ridurre i costi per le imprese e aumentare la competitività. Come? Esercitando una massiccia pressione politica sui sindacati per moderare, anzi, per comprimere gli aumenti salariali.
Il risultato? I salari tedeschi iniziano a crescere molto meno della produttività del lavoro. Questo significa che il costo unitario del lavoro in Germania scende, o comunque cresce molto meno rispetto ai partner europei. In un mondo con cambi flessibili, la moneta tedesca si sarebbe apprezzata, riequilibrando la situazione. Ma dentro l’Unione Monetaria Europea, con l’Euro, questo meccanismo non esiste più. I partner dell’Eurozona, come l’Italia, la Francia, la Spagna, non possono svalutare la loro moneta per recuperare competitività rispetto alla Germania.

Flassbeck è durissimo su questo punto: è stato un comportamento “sleale”. I partner europei non potevano immaginare che proprio la Germania, il pilastro dell’Europa, avrebbe smesso di orientare la sua politica salariale all’obiettivo comune di inflazione europea (che era intorno al 2%), scegliendo invece una strada di moderazione salariale estrema per guadagnare quote di mercato all’interno dell’Unione stessa. L’Euro, che doveva unire, è diventato così uno strumento che ha amplificato gli effetti di questa politica tedesca.
Le conseguenze? Il surplus commerciale tedesco è esploso, raggiungendo livelli record, spesso oltre il 7-8% del PIL. Un’enormità. Per Flassbeck, questi surplus non sono solo un problema economico globale, ma rappresentano:
- Una violazione delle regole commerciali globali (che predicano l’equilibrio).
- Una chiara violazione delle direttive europee all’interno dell’unione monetaria (la Procedura per Squilibri Macroeconomici, introdotta proprio per evitare situazioni del genere, fissa una soglia di allarme per i surplus al 6% del PIL, regolarmente sforata dalla Germania).
- Persino una violazione della legge tedesca sulla Stabilità e la Crescita degli anni ’60, che impegnava il governo a perseguire l’equilibrio esterno.
Insomma, la Germania, secondo questa lettura, ha costruito il suo successo sull’export non solo grazie all’efficienza delle sue imprese, ma anche attraverso una politica salariale che ha penalizzato i lavoratori tedeschi (il cui potere d’acquisto è cresciuto meno della ricchezza prodotta) e ha messo in difficoltà i partner europei, creando enormi squilibri commerciali nell’Eurozona. Questo è il cuore del mercantilismo Germania secondo Flassbeck.

Silenzi, Scuse “Ridicole” e l’Ordine Basato sulle Regole (Solo a Parole?)
Di fronte a questi numeri e a queste accuse, come ha reagito la Germania nel corso degli anni? Qui Flassbeck diventa ancora più critico. Parla di un vero e proprio “Schweigekartell”, un cartello del silenzio tra media e politica tedeschi, che per un quarto di secolo avrebbero sistematicamente ignorato o minimizzato il problema dei surplus eccessivi. Un silenzio assordante, che secondo l’economista tradisce una cattiva coscienza.
Le poche volte che il tema è stato affrontato, le spiegazioni addotte sono state liquidate da Flassbeck come “lächerlich”, ridicole. L’idea che i surplus dipendano semplicemente dal fatto che i tedeschi “risparmiano di più” degli altri? Una scusa che non regge, secondo lui, perché ignora le cause profonde legate alle politiche salariali e alla competitività artificialmente gonfiata.
La cosa più paradossale, fa notare Flassbeck, è che proprio la Germania è uno dei paesi che più si erge a paladina dell’“ordine internazionale basato sulle regole”. Un mantra ripetuto quasi quotidianamente. Eppure, quando si tratta delle regole che riguardano i propri squilibri commerciali e gli impatti sui partner, queste regole sembrano passare in secondo piano rispetto agli interessi economici nazionali. Un’ipocrisia che, secondo Flassbeck, non è più sostenibile. Il castello di carte delle auto-giustificazioni tedesche, basato su presunte virtù nazionali, viene così smontato pezzo per pezzo.

I Dazi USA: Aggressione o Correzione Necessaria (e Tardiva)?
Ed eccoci tornati ai dazi americani. Alla luce di questa analisi del mercantilismo Germania, come li legge Flassbeck? Non come un fulmine a ciel sereno, un atto di bullismo commerciale immotivato. Ma come una reazione, per quanto scomposta e unilaterale, a uno squilibrio profondo e ignorato per troppo tempo.
Gli Stati Uniti, ricorda Flassbeck, avevano già sollevato il problema in passato. Cita un report governativo americano del 2018 (un currency report) che puntava il dito contro le politiche mercantilistiche tedesche, definendole ingiustificabili. Trump, appena insediato, aveva dato mandato di indagare sulle cause dei persistenti surplus di alcuni partner commerciali e di preparare contromisure.
Quindi, per Flassbeck, Trump, nel caso specifico della Germania, “ha colto nel segno” (hat den Nagel auf den Kopf getroffen). Le misure americane, per quanto sgradevoli, non fanno altro che mettere a nudo un problema reale, un “errore” tedesco che andava avanti da decenni.
L’unica vera critica che Flassbeck muove agli Stati Uniti su questo fronte è quasi sorprendente: non aver agito prima. Aver tollerato per vent’anni questo modello tedesco basato sulla compressione salariale e sui surplus crescenti, che ha contribuito in modo significativo al deficit americano e agli squilibri globali. I dazi, in quest’ottica, diventano quasi una sorta di “risveglio” tardivo, la presa d’atto che il sistema non era più sostenibile. Una correzione necessaria, anche se applicata in modo brusco.

Reagire? Perché Sarebbe “Assurdo” e Controproducente (Secondo Flassbeck)
Di fronte ai dazi, la tentazione immediata in Europa, e soprattutto in Germania, è stata quella di parlare di contromisure, di ritorsioni. Un riflesso quasi pavloviano. Ma Flassbeck mette in guardia: è la strada sbagliata, ed è anche stupida dal punto di vista strategico.
Prima di tutto, paragona la reazione di alcuni politici tedeschi, che hanno osato accostare i dazi USA all’aggressione russa in Ucraina, come “assurda e irresponsabile allo stesso tempo”. Un giudizio senza appello, che sottolinea la totale incomprensione, a suo avviso, della posta in gioco.
Poi, entra nel merito economico: chi pensa a contromisure dovrebbe sapere una cosa fondamentale: in una disputa tra un paese cronicamente in deficit (come gli USA) e uno cronicamente in surplus (come la Germania), alla fine il paese in deficit vince sempre, e quello in surplus perde sempre. Perché? Perché le misure del paese in deficit (come i dazi) forzano un riequilibrio che danneggia l’export del paese in surplus, mentre le eventuali ritorsioni del paese in surplus non possono compensare questo danno strutturale.
Ma il punto centrale, per Flassbeck, è un altro: nel caso specifico della Germania, le contromisure non sono nemmeno appropriate moralmente o politicamente. Perché, come detto, gli USA stanno semplicemente esponendo e cercando di correggere un errore fondamentale della politica economica tedesca. Reagire con durezza significherebbe non solo non aver capito la lezione, ma anche perseverare nell’errore. Sarebbe come prendersela con il medico che ti dice che devi cambiare stile di vita perché i tuoi eccessi ti stanno danneggiando.

Oltre l’Indignazione: Cooperazione o Scontro? L’Appello di Flassbeck
Allora, quale via d’uscita? Flassbeck non ha dubbi. La nuova (al tempo dell’articolo) leadership tedesca dovrebbe abbandonare rapidamente l’atteggiamento da “noi siamo i buoni” (“wir sind die Guten”-Attitüde), che appare meno appropriato che mai di fronte alle critiche americane, da lui ritenute fondate sul mercantilismo Germania.
Serve un cambio di paradigma. Solo un governo tedesco capace di “saltare oltre la propria ombra” (superando le eredità delle politiche passate, sia socialdemocratiche che cristiano-democratiche) avrà la possibilità di negoziare seriamente con gli Stati Uniti. Negoziare cosa? Non una resa, ma un “rapido smantellamento dei surplus tedeschi” e una “normalizzazione delle relazioni commerciali”.
Questo implica, implicitamente, un ripensamento profondo delle politiche salariali, fiscali e di investimento in Germania, orientandole maggiormente a stimolare la domanda interna e a ridurre la dipendenza eccessiva dall’export. Significa accettare che un surplus commerciale perenne non è un segno di virtù, ma uno squilibrio dannoso per sé e per gli altri.

L’alternativa? Continuare sulla strada dell’auto-giustificazione, del moralismo senza autocritica (“unreflektierten Moralismus”), magari cedendo alla tentazione delle ritorsioni. Una strada che, avverte Flassbeck, è pericolosa e potrebbe “causare danni enormi”.
La sua speranza finale è che “la ragione prevalga rapidamente sul moralismo acritico”. Un appello a guardare in faccia la realtà scomoda del mercantilismo Germania, ad ammettere gli errori passati e a cercare una cooperazione basata su un riequilibrio reale, nell’interesse non solo delle relazioni transatlantiche, ma della stessa stabilità economica europea e globale.
Questa, in sintesi, è la bomba lanciata da Heiner Flassbeck. Un’analisi che ci costringe a interrogarci, a mettere in discussione le nostre certezze sul commercio globale, sui ruoli di “vittime” e “carnefici”, e sul modello economico tedesco che per anni abbiamo ammirato, forse senza guardarne troppo da vicino le fondamenta e le crepe. Che si sia d’accordo o meno con lui, la sua lettura offre spunti preziosi per capire le complesse dinamiche dietro le tensioni commerciali che continuano a scuotere il mondo.