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La cronaca di quel martedì è degna di un thriller politico. Fallito il primo tentativo di Merz, per procedere a un secondo scrutinio nella stessa giornata era necessaria una modifica al regolamento del Bundestag, che richiedeva una maggioranza dei due terzi. Una soglia apparentemente insormontabile senza un ampio consenso. E qui entra in gioco Die Linke. Contro ogni previsione, il partito che per anni si è contrapposto duramente alle politiche dell’Unione (CDU/CSU), che ha sempre denunciato le derive conservatrici e che considera la grande coalizione CDU-SPD un “governo dell’esclusione”, tende la mano proprio a Merz. Insieme a Unione, SPD e Verdi, la Linke presenta la mozione per sbloccare l’impasse e la vota compattamente.

Heidi Reichinnek, figura di spicco della Linke, commenta con pragmatismo ai microfoni dell’ARD, sottolineando come il suo partito sia “sempre stato pronto al dialogo con l’Union” e che quel giorno si è dimostrato che “possiamo presentare mozioni congiunte”. Un’affermazione che, se da un lato evidenzia una ritrovata rilevanza politica, dall’altro solleva interrogativi profondi sul prezzo di tale pragmatismo. Il voto della Linke per Merz ha così permesso al leader conservatore di evitare tre giorni di agonia politica, giorni in cui, come sottolinea l’analisi di Jacobin.de, la pressione interna al suo partito avrebbe potuto portare a scenari imprevedibili, forse persino al suo crollo politico.

Le giustificazioni ufficiali e ufficiose per questa mossa non mancano. Si parla di un intervento meramente “formale”, volto a garantire la funzionalità delle istituzioni. Internamente, pare abbia pesato anche la coincidenza del teorico secondo voto di venerdì con l’inizio del congresso nazionale della Linke a Chemnitz, un evento che una crisi di governo avrebbe inevitabilmente oscurato o disturbato. E poi, la più classica delle argomentazioni: Merz sarebbe stato eletto comunque, si sarebbe solo ritardato l’inevitabile di qualche giorno. Sarà vero? O forse, come suggerisce il pezzo di Friedrich, quei giorni avrebbero potuto cambiare il corso della storia politica tedesca? La domanda che rimane sospesa è: perché la Linke è accorsa al primo squillo di tromba dell’Unione, presentando un’immagine così “staatstragend”, così responsabile e istituzionale, proprio quando il suo avversario storico mostrava segni di debolezza?

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Un Vento di Normalizzazione: Segnali di un Avvicinamento Pericoloso?

Il voto della Linke per Merz non è un fulmine a ciel sereno, ma si inserisce, secondo l’analisi di Jacobin.de, in una tendenza più ampia che vede il partito, nonostante i toni a tratti socialpopulisti, muoversi verso il centro dello scacchiere politico. Un primo, significativo segnale era arrivato già a marzo, quando i governi regionali del Meclemburgo-Pomerania Anteriore e di Brema, entrambi con la partecipazione della Linke, avevano votato al Bundesrat (la camera delle regioni) a favore di un allentamento del “Schuldenbremse” (il freno al debito costituzionale) per finanziare l’aumento delle spese militari.

Una decisione sorprendente, considerando la tradizionale posizione pacifista e antimilitarista del partito. I Länder guidati dalla Linke avrebbero potuto facilmente esercitare un diritto di veto e imporre l’astensione, come hanno fatto Brandeburgo e Turingia sotto l’influenza del BSW (il nuovo partito di Sahra Wagenknecht) o come Sassonia-Anhalt e Renania-Palatinato per ragioni interne alla FDP. La giustificazione? “Responsabilità politica a livello regionale”. Nonostante uno stretto coordinamento con le federazioni locali, si è andati contro la linea della direzione nazionale del partito. La reazione di quest’ultima è stata sorprendentemente mite: un laconico commento sul fatto che quel comportamento di voto fosse stato “sbagliato” e che “un simile processo non dovrebbe ripetersi”. Si è parlato di “partito che impara” e della necessità di “guardare avanti”. Di conseguenze concrete, nessuna traccia.

Questo desiderio di apparire costruttivi e affidabili si manifesta anche in un altro ambito cruciale: la lotta contro l’estrema destra. È sempre più evidente come politici della Linke si inseriscano acriticamente nella formula dei “partiti democratici”, intendendo con ciò tutte le forze politiche ad esclusione dell’AfD. Una distinzione che, seppur formalmente corretta per quanto riguarda la cosiddetta Brandmauer (il muro tagliafuoco) nei confronti dell’AfD, produce un doppio effetto problematico.

Primo, questa retorica tende a enfatizzare una contrapposizione tra AfD e Union (CDU/CSU) che, sul piano dei contenuti, specialmente in tema di politiche migratorie, appare sempre più sfumata. La stessa Linke, in altre occasioni, non manca di sottolineare questa convergenza programmatica. Secondo, auto-includendosi nel cosiddetto “spettro democratico”, Die Linke si avvicina simbolicamente agli altri partiti, proiettando all’esterno, come scrive Friedrich, “l’impressione che si voglia appartenere, e non ci si stanca di sottolineare quanto si è costruttivi e responsabili”. Un desiderio di accettazione che potrebbe costare caro in termini di autonomia e radicalità.

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Friedrich Merz (CDU-Parteivorsitzender)

L’Antifascismo come Ponte o Trappola? Il Dilemma del “Fronte Popolare”

L’antifascismo, tema storicamente centrale per la sinistra e che probabilmente ha contribuito in modo significativo al sorprendente buon risultato della Linke alle elezioni federali di febbraio (secondo lo scenario ipotetico del testo), diventa un terreno particolarmente fertile per quella parte del partito attratta dal centro liberale. Dietro questa postura, consapevolmente o meno, si cela una logica da “Fronte Popolare”: l’idea di unire tutte le forze non fasciste per difendere la cosiddetta democrazia liberale.

Una strategia, sottolinea l’articolo di Jacobin.de, che non è intrinsecamente sbagliata. In situazioni di estrema emergenza, quando l’instaurazione di una dittatura fascista appare come una minaccia concreta e imminente, può rivelarsi la scelta giusta. Data la storia tedesca, è comprensibile che la sinistra non voglia arrivare “troppo tardi” ad adottare una simile strategia. Tuttavia, il prezzo può essere altissimo. Se una strategia da fronte popolare viene perseguita troppo presto o in modo inappropriato, può condurre, a medio e lungo termine, a una progressiva rinuncia alla propria capacità di azione indipendente. Più stretta è la connessione con l’establishment, maggiore è il rischio che i propri principi fondamentali vengano annacquati, che le proprie battaglie distintive vengano messe in secondo piano.

Un esempio lampante di questa dinamica è l’atteggiamento nei confronti del Verfassungsschutz, i servizi segreti interni. Die Linke ne chiede da sempre lo scioglimento, criticandone la struttura e la storia, spesso opaca e problematica. Eppure, quando si tratta dell’AfD, improvvisamente il Verfassungsschutz diventa un “testimone chiave”. Quando, venerdì prima del voto della Linke per Merz, è stata resa nota la classificazione ufficiale dell’AfD come organizzazione estremista di destra “accertata”, Heidi Reichinnek ha prontamente dichiarato: “Da oggi non ci devono più essere dubbi sul fatto che l’AfD sia il più grande pericolo per la nostra democrazia e il nostro Paese”. Che il Verfassungsschutz sia, strutturalmente e storicamente, tutt’altro che un’istituzione su cui la sinistra dovrebbe fare affidamento, sembra scivolare nell’oblio in questo processo di “Establishmentisierung”.

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Voci Discordanti e Sussurri di Corridoio: Un Partito Diviso?

Questa evoluzione all’interno della Linke non è affatto pacifica. Il percorso è aspramente dibattuto, anche all’interno del gruppo parlamentare. La decisione di facilitare il secondo scrutinio per Merz attraverso un’iniziativa congiunta con SPD, Verdi e Union è stata tutt’altro che unanime: i voti favorevoli avrebbero prevalso solo di misura. La leadership del gruppo parlamentare si è espressa a favore dell’azione congiunta ed è stata sostenuta. Bodo Ramelow, figura storica e pragmatica della Linke, ha poi scritto su X (ex Twitter) che non si è votato per Friedrich Merz, ma si è “permesso lo scrutinio per proteggere la democrazia”. Un argomento che, a quanto pare, ha fatto breccia in una parte del partito.

Ma c’è dell’altro. Esiste un accordo segreto con l’Union? Il giornalista Tilo Jung aveva inizialmente sostenuto l’esistenza di un simile patto, secondo cui l’Union, in cambio, avrebbe revocato la sua “Unvereinbarkeitsbeschluss”, la risoluzione che sancisce l’incompatibilità di qualsiasi collaborazione con Die Linke. Jung ha poi ritrattato, e anche l’Union nega l’esistenza di un accordo formale. Eppure, qualcosa sembra essersi mosso. Thorsten Frei, potente Ministro della Cancelleria e figura non certo nota per le sue simpatie verso sinistra, si è mostrato aperto a una “rivalutazione” del rapporto con la Linkspartei.

Indizi di intese confidenziali sono emersi anche dalle dichiarazioni di alcuni politici. Julia Klöckner (CDU) ha rivelato ai media che la Linke avrebbe acconsentito alla mozione congiunta anche perché un voto regolare tre giorni dopo sarebbe coinciso con l’apertura del loro congresso a Chemnitz – un argomento che, fino a quel momento, era circolato solo in conversazioni interne al partito. E non è solo l’Union a mostrare segnali di cambiamento. La stessa leader della Linke ed ex caporedattrice di JACOBIN, Ines Schwerdtner, è stata citata da tutti i media con una dichiarazione significativa: “Mi aspetto dall’Union che non si faccia viva solo quando la casa brucia, ma anche in altre decisioni politiche, quando è necessaria una maggioranza dei due terzi.” Un messaggio chiaro, che prefigura una nuova stagione di possibili collaborazioni su temi specifici.

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La Radice del Problema: Difesa dell’Esistente o Progetto Trasformatore?

In definitiva, la questione sollevata dal voto Linke Merz e dalle tendenze analizzate da Jacobin.de va oltre le discutibili strategie di comunicazione o le problematiche tattiche nel rapporto con Merz e l’Union. Il problema è più profondo e riguarda la visione strategica della Linke. A causa degli attuali rapporti di forza sociali e politici, a molti all’interno del partito la difesa dell’esistente contro l’avanzata della destra appare come l’unica strategia di sinistra realisticamente perseguibile.

Manca, o sembra mancare, una prospettiva capace di far uscire la sinistra dalla difensiva, una visione che permetta non solo di reagire agli eventi, ma di tornare a porre al centro del dibattito proposte offensive, concetti propri che non si limitino a chiedere più sussidi per l’alloggio o un aumento del salario minimo (pur sacrosanti), ma che abbiano come orizzonte l’obiettivo di una trasformazione radicale della società. Questo è il nodo cruciale: la Linke è ancora capace di immaginare e lottare per un “altro mondo possibile”, o si sta rassegnando a un ruolo di gestione responsabile del capitalismo esistente, magari con qualche correttivo sociale?

Il pericolo della “Establishmentisierung”, acuitosi con gli eventi recenti, potrebbe, nel migliore dei casi, trasformarsi in un’opportunità. Potrebbe essere l’occasione per aprire finalmente una discussione seria e approfondita su una strategia a lungo termine per una politica socialista nel XXI secolo. Forse, suggerisce Sebastian Friedrich, questa discussione inizierà proprio al prossimo congresso di Chemnitz. Il voto Linke Merz potrebbe quindi non essere solo la cronaca di un compromesso tattico, ma il sintomo di una crisi identitaria e strategica che interroga non solo la sinistra tedesca, ma potenzialmente tutte le forze progressiste europee che si trovano a navigare nelle acque agitate della politica contemporanea, strette tra la necessità di essere rilevanti e il rischio di perdere la propria anima.


Questo blog post è basato sull’analisi e sugli spunti offerti dall’articolo “Droht die Establish­mentisierung der Linken?” di Sebastian Friedrich, pubblicato su Jacobin.de.