Nel labirinto spesso impenetrabile del dibattito economico, dove tecnicismi e modelli complessi possono allontanare il cittadino comune, esistono poche figure capaci di parlare con chiarezza disarmante, di sfidare le convenzioni e di mettere a nudo le contraddizioni del sistema con una passione quasi militante. Una di queste figure è senza dubbio Heiner Flassbeck, economista tedesco di spicco, con un passato importante al Ministero delle Finanze tedesco e all’UNCTAD (la Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo). Ascoltare Flassbeck è un’esperienza che scuote, costringe a rivedere posizioni consolidate e a guardare con occhi critici le narrazioni dominanti, in particolare quelle che riguardano la locomotiva d’Europa: la Germania.
Ho avuto modo di approfondire il suo pensiero attraverso un’intervista che non ha lasciato spazio a zone d’ombra, un dialogo schietto che ha toccato nervi scoperti dell’economia globale. E il filo conduttore che attraversa l’intera conversazione è la profonda irritazione di Flassbeck nei confronti di quello che considera un pensiero economico tedesco ampiamente diffuso, ma fondamentalmente sbagliato e dannoso. Il suo bersaglio principale? L’ossessione per gli avanzi commerciali e l’export a tutti i costi, visti in Germania come un trofeo, un simbolo di virtù e successo, ma che Flassbeck dipinge come la causa profonda di squilibri insostenibili a livello mondiale. E il paradosso che emerge con forza è che, su questo tema cruciale, Flassbeck arriva a dire qualcosa di inatteso e potentemente controverso: Donald Trump, nel criticare questi squilibri, ha colto nel segno.

Le sue prime parole nell’intervista trasudano frustrazione: “Devo dire che mi irrito enormemente per il fatto che praticamente tutti gli economisti tedeschi ripetano queste sciocchezze e non dicano mai alle persone che dobbiamo crescere da soli… ma per questo abbiamo bisogno… di più debito pubblico.” Un esordio che è già una dichiarazione di guerra all’ortodossia del pareggio di bilancio e dell’austerità. La sua visione è cristallina: la Germania non deve inseguire la crescita spingendo sulle esportazioni a scapito degli altri, ma deve concentrarsi sulla crescita interna, sulla domanda interna. E questo, in un mondo ideale, richiederebbe investimenti pubblici, quindi – sì – più debito statale.
E poi arriva il passaggio su Trump. Flassbeck osserva come in Germania ci si indigni perché Trump afferma che i tedeschi “violano tutte le regole della ragione”. L’atteggiamento diffuso è liquidare le accuse di Trump come “sciocchezze”. Ma Flassbeck è categorico: “No, non sono sciocchezze, su questo punto ha assolutamente ragione, e questo è sempre il tentativo tedesco.” Il tentativo tedesco, secondo lui, è quello di migliorare la propria posizione commerciale a spese degli altri. E su questo punto specifico – gli squilibri commerciali – Flassbeck si allinea inaspettatamente con la critica di Trump, pur riconoscendo che il controverso presidente americano ha torto su una miriade di altre questioni. Ma sugli squilibri commerciali globali, dice Flassbeck, “ha chiaramente ragione.”

La Competitività: Un Concerto Sbagliato Eseguito in Solitaria
Il concetto di competitività è un mantra ripetuto ossessivamente in Germania. Migliorare la competitività è presentato come la chiave per il successo economico. Ma Flassbeck ne smonta la retorica con una logica inesorabile. “Migliorare la competitività,” spiega con enfasi, “significa, lo dico di nuovo, peggiorare la competitività di qualcun altro.” È un gioco a somma zero. Se un paese diventa più competitivo, un altro, o più di uno, deve necessariamente diventarlo di meno. Non c’è scampo a questa realtà matematica.
Eppure, questa verità elementare viene apparentemente ignorata nel dibattito pubblico tedesco. Flassbeck si sofferma sulla figura di un politico tedesco che, ogni volta che rilascia un’intervista, ripete come un automa: “Dobbiamo migliorare la competitività.” Flassbeck si chiede retoricamente: “Nei confronti di chi, però, non lo so.” Con chi dovremmo competere di più? Con i nostri partner europei, nei confronti dei quali siamo già “incredibilmente competitivi”? O con gli americani, che sono ormai esasperati dai nostri continui avanzi?

Questa fissazione unilaterale sulla competitività ha portato la Germania, secondo Flassbeck, a una pratica economica discutibile: il “dumping salariale”. Non si tratta di vendere prodotti sottocosto, ma di mantenere i salari artificialmente bassi rispetto alla crescita della produttività. “I salari non sono aumentati tanto quanto la produttività avrebbe giustificato,” afferma Flassbeck. Il risultato è stato un vantaggio di costo che ha alimentato l’export tedesco, ma ha anche contribuito a comprimere la domanda interna e, soprattutto, a creare enormi avanzi commerciali a scapito di altri paesi.
Questo fenomeno è stato particolarmente evidente all’interno dell’Eurozona. Non potendo più aggiustare il tasso di cambio (poiché la moneta è comune), la Germania ha utilizzato la leva dei salari per ottenere un vantaggio competitivo sugli altri membri dell’unione monetaria. Una strategia che ha esacerbato gli squilibri interni all’Eurozona e imposto sacrifici (le cosiddette “svalutazioni interne”) ad altri paesi in difficoltà.

Gli Squilibri: Non Dipendono dalla Nostra “Volontà”
Una delle spiegazioni più diffuse per giustificare gli squilibri commerciali è la cosiddetta “teoria del risparmio”. Questa teoria suggerisce che i paesi con avanzi semplicemente risparmiano di più di quanto investono o consumano, mentre quelli con disavanzi fanno il contrario. Flassbeck liquida questa teoria con un disprezzo che non ammette repliche. “Questo è un nonsense grandioso,” afferma.
“Siete di nuovo sul ‘volere’. Siete sempre sul ‘volere’. Non si tratta di ‘volere’.” L’idea che gli avanzi o i disavanzi dipendano dalla “volontà” di risparmiare o spendere è, per Flassbeck, una distorsione fondamentale della realtà economica. La ragione è semplice: “L’avanzo delle partite correnti del mondo è zero, è sempre esattamente uguale a zero.” Non è una questione di scelta individuale o nazionale; il totale globale è sempre in equilibrio.
“Deve esserci un meccanismo che spieghi come può essere che un paese abbia avanzi e un altro abbia disavanzi.” E questo meccanismo non è legato alla “volontà” di risparmiare, ma a fattori a somma zero: i cambiamenti nella competitività (se uno migliora, l’altro peggiora inevitabilmente) e i cambiamenti nei “terms of trade” (il rapporto tra i prezzi delle esportazioni e i prezzi delle importazioni).
Flassbeck usa un esempio illuminante: cosa succederebbe se “tutti i paesi del mondo dicessero: ‘Vogliamo vivere al di sotto dei nostri mezzi. Vogliamo tutti avere avanzi nelle partite correnti, perché è molto più bello'”? Ovviamente, questo è impossibile. Quindi, l’idea che dipenda dalla “volontà” è priva di fondamento. La realtà è che i meccanismi economici distribuiscono questo saldo globale (sempre zero) tra i vari paesi, e questa distribuzione è influenzata da fattori come la competitività e i tassi di cambio reali.

Il Dollaro e la Svalutazione Ineludibile
Un punto nevralgico dell’analisi di Flassbeck è il ruolo del dollaro statunitense e il suo impatto sugli enormi disavanzi commerciali americani. La teoria economica suggerirebbe che un paese con un persistente e massiccio disavanzo commerciale dovrebbe vedere la sua valuta svalutarsi, rendendo le sue esportazioni più economiche e le importazioni più costose, favorendo così un riequilibrio. Tuttavia, il dollaro gode dello status di principale valuta di riserva mondiale, costantemente richiesto a livello globale, il che sembra impedirne una svalutazione significativa.
L’intervistatore pone la domanda cruciale: forse gli Stati Uniti devono semplicemente accettare questo disavanzo come “prezzo” per avere il dollaro come valuta di riserva globale?
Flassbeck respinge con forza questa tesi. “No, non la vedo affatto così.” L’idea che il mondo detenga dollari semplicemente perché “vuole” farlo è fuorviante. Prendiamo l’esempio della Cina: detiene un’enorme quantità di dollari non per libera scelta di investimento, ma perché ha “sistematicamente indebolito la sua valuta rispetto al dollaro per oltre 30 anni”. Per mantenere il yuan sottovalutato e spingere le esportazioni, la Banca Popolare Cinese ha dovuto acquistare enormi quantità di dollari, che poi sono stati investiti in titoli di stato USA. Lo stesso meccanismo, su scala diversa, è utilizzato dalla Banca Nazionale Svizzera per evitare un’eccessiva rivalutazione del franco.

Quindi, la domanda globale di dollari è in parte una conseguenza delle politiche di altri paesi volte a manipolare i tassi di cambio per ottenere vantaggi competitivi. E Flassbeck è convinto che gli Stati Uniti abbiano il potere di intervenire. “Non c’è niente… niente che impedisca a Trump di dare l’ordine alla Fed di indebolire la valuta americana.” La Federal Reserve, la banca centrale americana, potrebbe essere incaricata di favorire una svalutazione del dollaro.
Secondo le stime di Flassbeck, guardando al tasso di cambio reale effettivo (l’indicatore che meglio riflette la competitività internazionale, tenendo conto delle differenze di inflazione), il dollaro si è rivalutato di circa il 30% negli ultimi dieci anni. Per correggere il disavanzo americano, sarebbe necessaria una svalutazione reale di pari entità. E come si potrebbe ottenere? “Se Trump o il suo Ministro delle Finanze si presentassero e dicessero: ‘Abbiamo bisogno di una svalutazione del 30%’, la otterrebbero domani mattina.” I mercati reagirebbero immediatamente a una dichiarazione politica così chiara e decisa.
Naturalmente, c’è il tema dell’indipendenza della Fed. Ma Flassbeck sottolinea che la Fed è “comunque meno indipendente della Banca Centrale Europea, ad esempio”. E soprattutto, la Fed ha un doppio mandato: stabilità dei prezzi e massimo impiego. Se il Presidente degli Stati Uniti argomentasse in modo convincente che il mantenimento di un alto livello di occupazione richiede una svalutazione, Flassbeck si chiede “cosa mai potrebbe dire la Fed in contrario”.
L’alternativa ai dazi di Trump, che Flassbeck giudica “insensati” e dannosi, sarebbe stata proprio questa: un intervento mirato per svalutare il dollaro.

La Germania: Il “Più Grande Peccatore” degli Avanzi
Tornando prepotentemente alla Germania, Flassbeck non usa metafore. “La Germania è il più grande peccatore in termini di avanzi… nel commercio estero in tutto il mondo.” Escludendo paesi con economie basate sull’export di materie prime, come l’Arabia Saudita, la Germania detiene il primato globale per l’entità dei suoi avanzi delle partite correnti. Persino l’avanzo del Giappone, pur significativo, è inferiore a quello tedesco.
Questo avanzo tedesco “esorbitante”, secondo Flassbeck, non è un caso. È il risultato di politiche deliberate, la più importante delle quali è stata quella di impedire che i salari crescessero in linea con la produttività. Politiche che hanno danneggiato gli altri paesi. “Stiamo togliendo domanda agli americani… danneggiando la produzione negli USA.” In altre parole, abbiamo “rubato” posti di lavoro ad altri paesi attraverso i nostri avanzi commerciali.
E l’aspetto più sconcertante, per Flassbeck, è che la Germania persista su questa strada, ignorando persino le regole stabilite a livello europeo. “Nei trattati europei è scritto chiaramente: nessuno dovrebbe avere elevati avanzi delle partite correnti in modo permanente, comunque non oltre il 4% circa.” La Germania supera costantemente questa soglia, eppure “nessuno dice niente”. Fino all’arrivo di Donald Trump che, con il suo stile sgarbato ma efficace nel sollevare questioni scomode, ha detto: “I tedeschi violano tutte le regole della ragione.” E su questo punto, ribadisce Flassbeck, “ha assolutamente ragione.”

Oltre il Semplice “Voglio”: Saldi Finanziari e Debito Pubblico
Per capire veramente gli squilibri, è necessario andare oltre la semplice bilancia commerciale. Flassbeck introduce il concetto dei saldi finanziari settoriali di un’economia nazionale. Il saldo delle partite correnti di un paese è la somma algebrica dei saldi finanziari di tre settori: il settore privato (famiglie e imprese), il settore pubblico (lo Stato) e il settore estero.
“Questi saldi finanziari ci mostrano anche che un paese come gli USA, che ha un disavanzo delle partite correnti dell’ordine del 4% del PIL…” Se gli Stati Uniti hanno un disavanzo delle partite correnti del 4%, e se il settore privato americano nel complesso ha un avanzo (risparmia più di quanto investe), allora necessariamente il settore pubblico, lo Stato, deve avere un disavanzo sufficiente a coprire sia l’avanzo del privato che il disavanzo estero. In termini più diretti: se le famiglie e le imprese americane risparmiano e il paese nel suo complesso importa molto più di quanto esporti, il governo USA deve indebitarsi per mantenere l’economia in funzione.
Al contrario, la Germania ha enormi avanzi. Questo significa che, se il settore privato è in avanzo, lo Stato può permettersi di avere un disavanzo ridotto o addirittura un avanzo senza che l’economia collassi. “La Germania ha un debito pubblico così basso solo perché ha avuto questo enorme avanzo delle partite correnti.” Il nostro “risparmio” è, in realtà, l’indebitamento degli altri nei nostri confronti. “In un certo senso, l’estero si è indebitato per noi, e gli americani fanno parte di quell’estero che si è indebitato per noi.”
È un circolo vizioso perverso: i paesi in avanzo sottraggono domanda ai paesi in disavanzo, costringendo questi ultimi (se vogliono evitare un aumento della disoccupazione) a maggiori deficit pubblici. E poi, i paesi in avanzo criticano il debito eccessivo dei paesi in disavanzo! Flassbeck riassume la situazione con un’ironia tagliente: Trump “potrebbe anche dire: ‘Voi, strani laggiù, state consolidando i vostri bilanci a mie spese’.” E anche su questo punto, dice Flassbeck, “avrebbe ragione.”

La Speranza nella Cooperazione e la Scomoda Verità Tedesca
Nonostante il quadro dipinto da Flassbeck sia a tratti desolante, segnato da squilibri radicati e incomprensioni profonde, l’economista intravede una via d’uscita, una possibilità di cambiamento. Menziona la recente dichiarazione del Segretario al Tesoro USA, Scott Bessent, che ha parlato della necessità di una “riorganizzazione dei sistemi finanziari e commerciali globali” nei prossimi anni, paragonabile per portata a Bretton Woods. Flassbeck accoglie questa prospettiva con favore, definendola un “enorme progresso”.
Tuttavia, perché questa riorganizzazione abbia successo, deve basarsi sulla cooperazione internazionale, non sullo scontro o sui dazi unilaterali, che Flassbeck considera inefficaci e dannosi. È necessario un accordo globale, simile a quello che portò alla creazione del sistema di Bretton Woods dopo la Seconda Guerra Mondiale, che stabilisca regole chiare per la gestione dei tassi di cambio e per la correzione degli squilibri. Un sistema in cui i paesi in disavanzo si impegnino a svalutare e quelli in avanzo a rivalutare la propria valuta, in modo coordinato.
Flassbeck si mostra moderatamente ottimista sulla possibilità che anche la Cina possa essere interessata a un tale accordo. I cinesi stessi non hanno interesse a subire continue pressioni sulla loro valuta e tensioni commerciali con gli Stati Uniti. Un sistema globale meglio organizzato porterebbe benefici a tutti.

Ma c’è un punto cruciale e scomodo, soprattutto per la Germania. In un sistema monetario e commerciale globale equo e ben funzionante, basato sulla cooperazione e sulla correzione degli squilibri, “il meraviglioso ruolo speciale della Germania con i suoi avanzi, semplicemente, non esisterebbe più.” La Germania dovrebbe abbandonare il suo status di “campione mondiale degli avanzi commerciali”. Dovrebbe imparare a prosperare “crescendo da sola”, puntando sulla forza della propria domanda interna piuttosto che sull’export alimentato da avanzi a spese degli altri.
Questo implicherebbe un cambiamento radicale di mentalità, un superamento del dogma della competitività come fine ultimo e una presa di coscienza delle responsabilità che derivano dall’essere parte di un’economia globale interconnessa. Sarebbe un passo avanti verso una maggiore maturità economica e politica, non solo per la Germania, ma per l’intero sistema.
L’analisi di Heiner Flassbeck è un invito a guardare oltre le semplificazioni e a riconoscere la complessità degli squilibri economici globali. È un promemoria che l’economia non è una scienza esatta avulsa dal contesto politico e sociale, ma un sistema dinamico influenzato da scelte strategiche e, a volte, da miopie nazionali. Ignorare gli avanzi e i disavanzi persistenti, o peggio, considerarli un segno di forza unilaterale, non solo genera attriti internazionali, ma impedisce anche di costruire un sistema globale più stabile e prospero per tutti. E, ironia della sorte, a volte ci vuole la voce più inaspettata – o l’analisi più controcorrente – per ricordarcelo.