prossima crisi euro

C’è un silenzio assordante che circonda l’economia europea. Mentre i titoli dei giornali si concentrano su guerre, inflazione e transizioni energetiche, una crepa si sta allargando sotto la superficie, silenziosa e implacabile. È una faglia tettonica che potrebbe scatenare la prossima crisi dell’euro, una scossa forse più profonda e insidiosa di quella che abbiamo vissuto un decennio fa. La cosa più spaventosa? Le cause di questa futura tempesta vengono oggi celebrate come un successo.

Immagina di leggere questa notizia: in Romania i salari sono cresciuti del 16%. In Polonia del 19%. In Croazia e Bulgaria di quasi il 14%. La reazione istintiva è di sollievo, forse persino di gioia. Finalmente! I paesi dell’Est Europa, a lungo considerati la “manifattura a basso costo” del continente, stanno recuperando terreno. I loro lavoratori guadagnano di più, il divario con le nazioni più ricche si riduce. Sembra il lieto fine di una favola europea, la prova che l’Unione funziona.

Ma cosa succederebbe se ti dicessi che questa non è una favola, ma il prologo di un incubo? Che questi numeri, apparentemente positivi, sono in realtà il ticchettio di una bomba a orologeria piazzata nel cuore dell’Eurozona? È l’allarme, tanto documentato quanto ignorato, lanciato dal noto economista tedesco Heiner Flassbeck. Un avvertimento che non parla di un rischio astratto, ma di una dinamica economica “assolutamente mortale” che si sta consumando sotto i nostri occhi. Per capirla, dobbiamo smettere di guardare le buste paga e iniziare a guardare dentro le fabbriche.

heiner flassbeck

L’illusione della busta paga: perché non è il salario a fare la ricchezza

Siamo tutti ossessionati dal costo del lavoro. In Italia ce ne lamentiamo da decenni, confrontando i nostri salari con quelli tedeschi o francesi. L’ultimo rapporto del Statistisches Bundesamt (l’ufficio di statistica tedesco) ci dice che un’ora di lavoro in Germania costa 43 euro, in Francia più o meno lo stesso, mentre in Italia siamo fermi a 31 euro. In fondo alla classifica, la Bulgaria, con appena 10,6 euro.

Sembrerebbe una mappa chiara della competitività: chi ha il costo del lavoro più basso vince, giusto? Sbagliato. E questo è l’errore fondamentale che, secondo Flassbeck, sta portando l’Europa verso il baratro.

prossima crisi euro
Costo del lavoro nei paesi europei

La vera misura della salute di un’economia non è il costo del lavoro, ma il costo unitario del lavoro. È un concetto meno intuitivo, ma infinitamente più importante. Immagina due artigiani. Il primo, tedesco, guadagna 43 euro all’ora e in quell’ora produce dieci splendidi oggetti. Il costo di ogni oggetto, in termini di lavoro, è di 4,30 euro. Il secondo, bulgaro, guadagna 10,6 euro all’ora, ma nella stessa ora, per mancanza di macchinari moderni o di formazione, riesce a produrre solo due di quegli oggetti. Il costo per singolo oggetto è di 5,30 euro. Chi è più competitivo? Il tedesco, nonostante il suo salario sia quattro volte più alto.

Ecco il cuore del problema: la ricchezza non deriva da quanto vieni pagato, ma dal rapporto tra quanto vieni pagato e quanto produci (la tua produttività). Un paese è competitivo solo se i suoi salari crescono in armonia con la sua produttività. Se i salari corrono e la produttività resta al palo, ogni bene prodotto diventa sempre più caro, le imprese perdono ordini, chiudono e la disoccupazione dilaga.

rapporti francia germania

La ricetta per il disastro: salari da Formula 1, produttività da utilitaria

Ora torniamo ai dati che sembravano così promettenti. Mentre la stampa tedesca, come Der Spiegel, commentava gli aumenti salariali a due cifre in Polonia, Croazia e Bulgaria come un segno di “recupero economico”, Flassbeck pone una domanda semplice e brutale: “Avete mai sentito dire che la produttività in Bulgaria stia crescendo a due cifre?”.

La risposta, ovviamente, è no. Le stime più ottimistiche parlano di una crescita della produttività in questi paesi tra lo zero e il tre per cento. La matematica, a questo punto, diventa spietata. Se i tuoi salari aumentano del 15% e la tua capacità produttiva solo del 2%, il tuo costo unitario del lavoro sta esplodendo. Stai diventando, mese dopo mese, sempre meno competitivo sul mercato globale.

Questa non è una speculazione teorica. I dati Eurostat del primo trimestre di quest’anno, passati quasi inosservati, confermano questa tendenza folle. La Romania al +16%, la Croazia (membro dell’euro) al +13%, la Bulgaria al +13%. Sono cifre da boom economico asiatico degli anni ’90, ma senza il boom. La crescita economica reale in questi paesi è modesta, a tratti stagnante.

Stiamo assistendo a una colossale bolla salariale, completamente scollegata dalla realtà economica. Una bolla che, per i paesi che non hanno l’euro, può ancora essere gestita, seppur dolorosamente, svalutando la propria moneta. Ma per chi è nell’euro, o si appresta a entrarci, questa è una trappola mortale.

prossima crisi euro

Un fantasma dal passato: vi suona familiare?

Questa dinamica di divergenza competitiva dovrebbe far suonare un campanello d’allarme a chiunque abbia memoria della crisi del debito sovrano del 2010-2012. Anche allora, il problema non era semplicemente il “debito pubblico”, ma una profonda spaccatura nella competitività. Per un decennio, la Germania aveva tenuto i salari bassi grazie alle riforme Hartz, accumulando enormi surplus commerciali, mentre i paesi del Sud Europa (Italia, Spagna, Grecia) vedevano i loro costi crescere più della loro produttività, accumulando deficit.

prossima crisi euro
Costo del lavoro per unità di prodotto nei paesi europei

L’euro, impedendo svalutazioni, ha fatto sì che questi squilibri diventassero insostenibili, fino a esplodere. Oggi, avverte Flassbeck, stiamo preparando uno scenario simile, ma speculare. Non c’è più un paese che frena i salari per diventare super-competitivo, ma un intero blocco di paesi che li lascia esplodere, diventando tragicamente non-competitivo.

Il risultato finale, però, è lo stesso: un’Eurozona spaccata in due, con squilibri macroeconomici così profondi da renderne impossibile la sopravvivenza. La storia non si ripete mai identica, ma le sue lezioni sì. E sembra che l’Europa sia una studentessa particolarmente smemorata.

vivere in germania

Il peccato originale: quando la geopolitica distrugge l’economia

Ma perché sta accadendo? Perché i leader europei, la Commissione, la BCE, sembrano ignorare un pericolo così evidente? La risposta di Flassbeck è tanto agghiacciante quanto plausibile: per ragioni puramente politiche.

La decisione di spalancare le porte dell’Eurozona a un paese come la Bulgaria, in una condizione economica così fragile, non ha alcuna logica economica. È una mossa geopolitica. L’obiettivo è rafforzare il “Bollwerk”, il bastione europeo, per consolidare il fronte contro l’Est. Si sacrificano le fondamenta economiche della casa comune sull’altare di una strategia di contenimento.

È una politica che Flassbeck definisce “incredibilmente miope”. Si pensa di rafforzare l’Unione accogliendo nuovi membri, ma lo si fa ignorando le regole non scritte che tengono insieme la moneta unica. Il risultato è che si indeboliscono fatalmente sia i nuovi arrivati sia l’intera struttura. L’euro, nato come progetto economico, viene usato come arma politica, e così facendo se ne firma la condanna a morte.

Per un paese come la Bulgaria, entrare nell’euro in queste condizioni significa rinunciare all’unica valvola di sfogo che avrebbe: la svalutazione della propria moneta per recuperare la competitività perduta. Una volta dentro, sarà in trappola. Le sue imprese, schiacciate da costi salariali insostenibili e dalla concorrenza di aziende tedesche o francesi, non potranno sopravvivere. Non potranno aumentare i prezzi, perché nessuno comprerebbe i loro prodotti. Potranno solo tagliare, licenziare e, infine, chiudere.

problemi in Germania

La scelta che non possiamo più rimandare

Quella descritta da Heiner Flassbeck non è una profezia apocalittica, ma la fredda analisi di una traiettoria. La prossima crisi dell’euro non arriverà all’improvviso, come un cigno nero. Sarà il culmine di un processo che sta avvenendo ora, documentato da dati ufficiali che nessuno sembra voler leggere con la dovuta attenzione.

Il canto delle sirene del “recupero economico” dell’Est ci sta distraendo dal rumore sordo della struttura che scricchiola. Stiamo costruendo un’unione politica su fondamenta economiche di sabbia. E quando la marea della realtà arriverà, spazzerà via tutto.

La domanda non è se questa crisi arriverà, ma quando. E se per allora avremo trovato il coraggio di affrontare le scomode verità economiche, o se continueremo a preferire le rassicuranti bugie politiche. Ammettere che l’aumento dei salari, senza un parallelo aumento della produttività, non è crescita ma un cancro economico, è il primo, doloroso passo. Un passo che l’Europa, oggi, non sembra avere alcuna intenzione di compiere. E questo silenzio, più di ogni altra cosa, dovrebbe terrorizzarci.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *