heiner flassbeck

Nel dibattito attuale sul debito pubblico, praticamente tutti gli esperti si sbagliano, perché trascurano le correlazioni macroeconomiche, senza le quali il debito statale non può né essere spiegato né giustificato. Quasi tutti, anche quelli apparentemente più illuminati, sono rimasti in un modo o nell’altro delle massaie sveve. A mettere in luce questa contraddizione è stata, ironicamente, proprio una redattrice della Süddeutsche Zeitung. Kerstin Bund crede di essersi emancipata dalla logica della massaia sveva, ma in realtà non ci riesce. Ne scrive Heiner Flassbeck

heiner flassbeck

Secondo Kerstin Bund, la massaia sveva è apparsa sulla scena mondiale quando Angela Merkel, nel 2008, l’ha elevata a icona del buon senso. Ma qui si sbaglia di circa 250 anni. La massaia sveva era in realtà una massaia scozzese, perché fu già Adam Smith a scoprire il risparmio come una delle virtù più importanti. Secondo la dottrina morale scozzese, senza il consapevole atto di rinunciare al consumo non possono esserci investimenti. Ed è proprio qui che sta il problema, ma nessuno osa spostare il povero cane dalla sua tomba.

La redattrice della Süddeutsche Zeitung si avventura audacemente in un terreno minato, raccoglie tutto il suo coraggio e scrive: “Potrebbe non essere immediatamente evidente, ma a differenza dei debiti privati, i debiti pubblici di fatto non devono essere rimborsati. Essi vengono piuttosto trasmessi di generazione in generazione. Un elevato indebitamento pubblico non è un problema finché la crescita economica è simile in velocità e l’onere degli interessi rimane gestibile.”

Questo è vero. Ma lo stesso vale anche per ogni investitore o debitore privato. Finché l’investitore possiede un’azienda che funziona bene e i cui rendimenti gli permettono di coprire facilmente gli interessi, è assolutamente normale sostituire continuamente i vecchi contratti di credito con nuovi. La vera differenza tra il settore privato e quello pubblico è un’altra. La frase iniziale citata dalla Süddeutsche Zeitung avrebbe dovuto concludersi così:
“… a differenza dei debiti privati, i debiti pubblici non possono essere rimborsati, perché le imprese private e le famiglie private in un’economia risparmiano, ossia spendono meno di quanto guadagnano.”

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Parlare di debito senza considerare il risparmio è insensato

Questo è il punto. Chi parla di debito pubblico senza considerare il risparmio dei settori privati di un’economia ha mancato il tema fin dall’inizio. Chi crede che la questione riguardi principalmente l’uso che lo Stato fa del denaro preso in prestito, se lo investe o lo consuma, è completamente fuori strada. Chi trasforma la questione del debito in una questione generazionale non ha nemmeno capito la contabilità. E chi pensa di poter tagliare arbitrariamente la spesa per i consumi pubblici senza mettere in discussione l’effetto degli investimenti finanziati dal debito, ha completamente frainteso il ruolo delle imprese in un’economia di mercato.

Alla fine di ogni analisi economica sensata devono sempre esserci le imprese. E questo perché è il reddito delle imprese a trovarsi sia all’inizio sia alla fine di ogni catena di acquisti e vendite in un’economia di mercato. Le imprese ricevono il reddito residuo, ossia quello che rimane dopo che, in un investimento o in qualsiasi altra transazione, sono stati effettuati tutti i pagamenti contrattualmente previsti. Il reddito delle imprese, in tutti i settori, è sempre una combinazione di entrate generate dagli investimenti e di entrate derivanti direttamente dal consumo. Queste entrate esistono perché le imprese stesse o gli altri due settori (lo Stato e le famiglie private) hanno speso una parte del loro reddito invece di risparmiarlo.

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Per le decisioni di investimento delle imprese, la fonte delle loro entrate è irrilevante. Che la domanda, il grado di utilizzo della capacità produttiva e i profitti di un’azienda crescano perché essa beneficia direttamente di appalti pubblici o perché le altre imprese e i lavoratori, grazie agli ordini statali, dispongono di un reddito maggiore, è irrilevante per le decisioni di investimento dell’azienda. E viceversa: se la domanda di un’azienda cala nonostante un aumento degli investimenti pubblici, ma allo stesso tempo lo Stato riduce la spesa sociale, causando un calo della domanda di consumo, la sua decisione di investimento sarà negativa. Nessuno può dire che un effetto prevalga sull’altro o che, di norma, sia meno dannoso ridurre la spesa sociale piuttosto che gli investimenti pubblici.

Il miserabile tentativo della teoria neoclassica di costruire una conversione automatica del risparmio in investimento attraverso il tasso di interesse è fallito a causa del reddito delle imprese. Ogni forma di risparmio riduce questi redditi e quindi la propensione a investire. Chi non inizia e conclude la propria analisi con l’effetto del risparmio o dell’indebitamento sui redditi delle imprese, non fa alcun progresso. Poiché gli economisti neoclassici non lo fanno mai, sono rimasti – da Adam Smith fino ad oggi – al livello della massaia sveva. Perfino i politici tedeschi fautori dell’ordine economico, che portano il libero mercato come un mantra, non conoscono il reddito e i profitti delle imprese. Tuttavia, è possibile formulare affermazioni economicamente rilevanti solo se si pone il reddito residuo delle imprese al centro della riflessione.

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Se si vuole comprendere in modo chiaro quanto siano lontane dalla realtà le abituali concezioni degli economisti riguardo al risparmio e agli investimenti, bisogna considerare come i famosi economisti neoclassici spieghino il deficit della bilancia commerciale americana. A questo proposito, nel mio libro di base (Capitolo 3) ho menzionato alcuni esempi di spicco.

bilancia commerciale
Bilancia commerciale US

Di recente, anche Maurice Obstfeld, che (insieme a Kenneth Rogoff) ha scritto un’opera di riferimento della macroeconomia neoclassica (Foundations of International Macroeconomics) ed è stato capo economista del FMI, si è rivelato un teorico del risparmio. Qualche settimana fa ha scritto sulla Financial Times:

“It is low national saving coupled with robust investment that drives the US external deficit. Serious action to curb the federal budget deficit would boost both the trade balance and manufacturing employment.”
(Il basso livello di risparmio nazionale, unito a investimenti robusti, è la causa del deficit esterno degli Stati Uniti. Misure serie per ridurre il deficit di bilancio federale migliorerebbero sia la bilancia commerciale sia l’occupazione nel settore manifatturiero.)

Martin Wolf, editorialista capo del Financial Times, lo ha elogiato in modo particolare:

“The biggest determinant of America’s trade deficits is its huge federal fiscal deficit, currently at around 6 per cent of GDP.”
(Il principale fattore determinante dei deficit commerciali americani è l’enorme deficit fiscale federale, che attualmente si aggira intorno al 6% del PIL.)

Questa è una deduzione che non si può che definire assurda. Secondo questa logica, gli Stati Uniti avrebbero deficit commerciali e delle partite correnti perché non dispongono di un livello di risparmio nazionale sufficiente a finanziare i loro investimenti. Si ritiene che il fatto che un deficit delle partite correnti abbia sempre come contropartita un surplus nella bilancia dei capitali debba essere interpretato come un afflusso di capitale destinato agli investimenti interni.

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Ancora una volta, i redditi delle imprese non vengono presi in considerazione, sebbene siano essenziali per un’analisi razionale. L’idea stessa che lo Stato possa ridurre il proprio deficit, ossia tagliare la spesa o aumentare le tasse, senza che ciò influisca sui redditi delle imprese, appartiene a un altro mondo. Se i redditi delle imprese calano, nessuno può seriamente sostenere che l’attività di investimento possa proseguire esattamente come prima.

Peggio ancora: ciò che nelle statistiche della bilancia dei pagamenti viene registrato come importazione di capitali per gli Stati Uniti non ha nulla a che fare con un afflusso di capitali che possa essere impiegato liberamente nel paese. Nella bilancia dei pagamenti, un’importazione di capitali significa semplicemente che un paese ha importato più di quanto abbia esportato e che questa differenza è stata finanziata in qualche modo. Le importazioni sono state pagate e con ciò l’importazione di capitali si è realizzata. Non rimane nulla che possa essere destinato agli investimenti interni.

Joachim Nanninga lo spiega così:

“L’acquirente ha scambiato la prestazione, ovvero il bene acquistato, direttamente con un credito bancario.”

Il tentativo di spiegare i saldi delle partite correnti attraverso le decisioni di risparmio e investimento è fallace sin dall’inizio (come dimostrato anche nel mio libro), perché i saldi delle partite correnti nel mondo sono un fenomeno a somma zero. Ma i fenomeni a somma zero possono logicamente essere spiegati solo con fattori a somma zero. I fattori a somma zero sono i tassi di cambio reali, i termini di scambio o le differenze di crescita tra i paesi.

heiner flassbeck

Questo è anche empiricamente comprensibile senza particolari difficoltà. Le seguenti figure mostrano chiaramente che il tasso di cambio reale svolge un ruolo decisivo nella variazione del saldo delle partite correnti.

Figura 1: Tasso di cambio reale del dollaro statunitense

Tasso di cambio reale del dollaro

Negli anni ’80, il saldo delle partite correnti degli Stati Uniti è scivolato in un profondo deficit perché il dollaro si è apprezzato fortemente in termini reali (Figura 2). L’inversione del valore del dollaro, seguita al cosiddetto Accordo del Plaza – un intervento politico mirato alla sua svalutazione – ha riportato in equilibrio la bilancia delle partite correnti americana nel giro di pochi anni (Figura 1).

Figura 2: Saldo delle partite correnti degli Stati Uniti

partite correnti US

Anche successivamente, tra il 1995 e la fine del secolo, si è verificato un altro forte apprezzamento del dollaro. Il deficit delle partite correnti degli Stati Uniti è aumentato fino a raggiungere un valore record di oltre il 6% del PIL prima della crisi finanziaria globale del 2008/2009.

Figura 1: Tasso di cambio reale del dollaro statunitense dopo il 2020

Dal 2020, come mostra la Figura 2, il deficit della bilancia delle partite correnti americana è nuovamente aumentato in modo significativo. Dopo la crisi finanziaria, il tasso di cambio reale del dollaro statunitense è cresciuto di oltre il 30% e, in particolare dopo il 2020, è aumentato di un ulteriore 10%.

In questo contesto, le considerazioni dell’amministrazione di Donald Trump riguardo a un’azione politica simile all’Accordo del Plaza (“Accordo di Mar-a-Lago”), volta a svalutare il dollaro e ridurre il deficit delle partite correnti, non possono essere escluse. Anche i dazi su determinati beni provenienti dai paesi in surplus – come quelli annunciati da Trump sulle auto europee – possono essere giustificati in questo contesto.

Né la casalinga sveva né quella scozzese risparmiatrice possono dare consigli seri in materia di politica economica. La teoria neoclassica, sebbene superata, si ostina a sostenere ipotesi insensate per timore che ogni concessione alla realtà ne sancisca la fine. I neoliberali difendono comunque le loro dottrine come una religione e non si lasciano convincere neanche dai migliori argomenti. Anche molti economisti progressisti non sono ancora arrivati a una comprensione macroeconomica completa. Solo l’integrazione sistematica dei redditi residuali delle imprese in ogni fase di un’analisi sulle decisioni di risparmio e credito rappresenta il vero salto verso la macroeconomia.

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