C’è stato un tempo, non molto lontano, in cui attraversare un confine interno all’Europa sembrava quasi un non-evento. Un cartello blu con stelle gialle, forse un cambio di lingua sui segnali stradali, ma per il resto, un flusso continuo. L’idea di Schengen, di un’Europa senza frontiere interne, era diventata parte del nostro immaginario collettivo, un simbolo tangibile di unità e libertà di movimento. Ma i venti stanno cambiando, e nel cuore dell’Europa, in Germania, si sta assistendo a una svolta che sa di ritorno al passato. La Germania sta rafforzando le sue barriere, non con filo spinato fisico, ma con un muro di direttive e controlli che segnano una decisa “chiusura frontiere Germania” per chi cerca asilo. Una mossa che non solo ridisegna la mappa dell’accoglienza, ma innesca un effetto domino legale, politico e umano che sta già facendo tremare le fondamenta dell’Unione e sollevando interrogativi profondi sulla nostra comune identità europea. Quella che sembra una misura emergenziale rischia di diventare la nuova, controversa normalità.

Il Contesto Politico: Una Nuova Determinazione a Berlino
Il segnale è arrivato forte e chiaro da Berlino, sotto l’impulso di una nuova leadership politica incarnata da figure come il Cancelliere Friedrich Merz e il suo Ministro dell’Interno, Alexander Dobrindt. Stanchi di numeri percepiti come ingestibili, di centri d’accoglienza al limite e di una pressione politica interna crescente, specialmente dalle ali più conservatrici e dall’estrema destra, hanno deciso di agire. Non più appelli alla solidarietà europea lasciati cadere nel vuoto, non più la gestione quotidiana dell’emergenza, ma una linea netta: la Germania rivendica il diritto sovrano di controllare chi entra nel suo territorio, anche a costo di forzare le regole comuni. La parola d’ordine, diffusa dal Ministero dell’Interno e recepita dalle forze di polizia, è diventata quella del respingimento quasi sistematico. Una direttiva che, come vedremo, naviga in acque legali molto agitate.

L’Architettura Legale della Chiusura: Un Equilibrio Precario
Come giustificare una misura così drastica all’interno dell’architettura legale europea, che sulla carta protegge il diritto a chiedere asilo? Il governo tedesco, secondo quanto riportato dalla stampa specializzata, ha costruito un castello giuridico che poggia su due pilastri principali, entrambi soggetti a interpretazioni divergenti.
Il primo è l’articolo 72 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE). Questo articolo, spesso visto come una clausola di salvaguardia nazionale, permette agli Stati membri di derogare temporaneamente alle norme UE per motivi imperativi di “mantenimento dell’ordine pubblico” o “tutela della sicurezza interna”. Berlino sembra sostenere che l’attuale afflusso di richiedenti asilo costituisca una minaccia tale da giustificare questa misura eccezionale. Ma la soglia per invocare l’articolo 72 è notoriamente alta, e molti giuristi si chiedono se la situazione attuale – peraltro con numeri di arrivi in calo, come notano alcuni osservatori – possa davvero configurare una minaccia così grave all’ordine pubblico o alla sicurezza interna da giustificare la sospensione di fatto del diritto d’asilo alla frontiera.
Il secondo pilastro è una norma nazionale: l’articolo 18, paragrafo 2, della legge tedesca sull’asilo (Asylgesetz). Questa disposizione, relativamente scarna, afferma che l’ingresso deve essere negato a uno straniero se arriva da un “paese terzo sicuro”. Poiché la Germania ha classificato tutti i suoi stati confinanti (Polonia, Repubblica Ceca, Austria, Svizzera, Francia, Lussemburgo, Belgio, Paesi Bassi, Danimarca) come “paesi terzi sicuri”, la conclusione logica per il governo è che chiunque si presenti a queste frontiere per chiedere asilo possa, e anzi debba, essere respinto.
Il problema è che questa interpretazione cozza frontalmente con un altro caposaldo del diritto europeo in materia di asilo: il Regolamento di Dublino. Sebbene Dublino preveda il trasferimento del richiedente asilo nel primo paese UE di ingresso, presuppone comunque che la domanda venga registrata e che si avvii una procedura per determinare quale sia lo stato competente. La nuova prassi tedesca, invece, sembra saltare completamente questo passaggio, optando per un respingimento immediato. La giustificazione ufficiosa trapelata da Berlino? “Dublino non funziona nella pratica, quindi lo ignoriamo.” Un pragmatismo brutale che fa storcere il naso a molti.

Lo Scetticismo di Bruxelles e l’Ombra della Corte Europea
Questa audace manovra legale non è passata inosservata a Bruxelles. Fonti vicine alla Commissione Europea parlano di “forte scetticismo” e “preoccupazione”. La Presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, pur mantenendo un profilo pubblico cauto nei confronti del Cancelliere Merz durante le sue visite ufficiali, non avrebbe nascosto, in privato, i dubbi sulla compatibilità della misura con il diritto UE. Si sussurra che la Commissione stia valutando attentamente la situazione, consapevole che aprire un contenzioso diretto con la Germania sarebbe politicamente esplosivo, ma anche che lasciare correre creerebbe un precedente pericoloso.
È quasi scontato, secondo molti analisti, che la questione finirà davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) a Lussemburgo, probabilmente attraverso ricorsi presentati da singoli individui respinti o da organizzazioni per i diritti umani. A quel punto, la Germania dovrà difendere la sua interpretazione dell’articolo 72 e dimostrare in modo convincente l’esistenza di quella “grave minaccia” alla sicurezza interna. Dovrà spiegare perché il sovraffollamento delle strutture o gli episodi di criminalità, per quanto problematici, giustifichino una misura così radicale che sembra violare il principio fondamentale del non-refoulement (non respingimento verso paesi dove si rischiano persecuzioni) e il diritto individuale a chiedere protezione internazionale.
La scommessa di Berlino, si mormora, è sul tempo. Un procedimento davanti alla CGUE può richiedere anni. Nel frattempo, la speranza è che la politica di respingimento abbia un effetto deterrente e riduca significativamente gli arrivi. Una strategia cinica, forse, ma politicamente comprensibile nel breve termine, anche se rischiosa sul lungo periodo. Una vittoria legale della Germania potrebbe legittimare approcci simili in altri Stati membri, erodendo ulteriormente il sistema comune di asilo. Una sconfitta, invece, sarebbe un duro colpo politico e giuridico per il governo Merz.

Voci dal Confine: Quando la Politica Incontra la Vita Quotidiana
Mentre a Berlino e Bruxelles si disquisisce di articoli e regolamenti, lungo i confini tedeschi la nuova politica si traduce in realtà tangibili e spesso dolorose. Prendiamo l’esempio della zona di confine tra Kehl, in Germania, e Strasburgo, in Francia, un’area simbolo della riconciliazione e della cooperazione franco-tedesca. Qui, dove si è investito per decenni in ponti comuni, una linea tram transfrontaliera, persino un asilo nido condiviso, i nuovi controlli rafforzati hanno riportato indietro le lancette dell’orologio.
Le testimonianze raccolte dalla stampa locale parlano di code chilometriche, di pendolari esasperati che impiegano ore per tragitti di pochi minuti, di lavoratori transfrontalieri che vedono la loro quotidianità stravolta. Il sindaco di Kehl (citato senza nome diretto ma con le sue parole riprese dai media) ha espresso pubblicamente frustrazione e rabbia: “Ci hanno sempre spinto a costruire l’Europa dal basso, a creare legami concreti. Ora questi legami vengono sabotati”. La critica si fa ancora più amara quando si nota la coincidenza simbolica: l’introduzione dei controlli permanenti proprio l’8 maggio, anniversario della liberazione dal nazifascismo. Una scelta che, secondo le voci locali, denota una “mancanza di sensibilità storica e politica sconcertante”. L’Europa unita, qui, sembra improvvisamente più lontana.

L’Onda d’Urto sui Vicini: Un Coro di Proteste
La decisione tedesca, presentata da Berlino come una misura necessaria di politica interna, ha inevitabilmente provocato forti reazioni nei paesi confinanti, che si vedono potenzialmente trasformati in “zone cuscinetto” o destinatari involontari di flussi migratori deviati.
La risposta più dura è arrivata dalla Polonia. Il Primo Ministro Donald Tusk, ricevendo Merz a Varsavia per la sua visita inaugurale, non ha usato mezzi termini. Ha sottolineato l’impatto negativo sui quasi 100.000 pendolari polacchi che ogni giorno attraversano il confine per lavoro, già afflitti da lunghe attese, e ha avvertito che non accetterà che “nessuno, nemmeno la Germania, cerchi di inviare gruppi di migranti verso la Polonia”. “Questo la Polonia non lo accetterà mai”, ha tuonato, mettendo in chiaro che qualsiasi tentativo di respingimento sistematico verso il suo territorio incontrerà una ferma opposizione.
Anche dalla Svizzera si sono levate voci critiche. Il Ministro della Giustizia elvetico, Beat Jans, ha dichiarato che i respingimenti sistematici pianificati dalla Germania “violano il diritto vigente” secondo la prospettiva svizzera. Si è parlato persino di possibili “misure” in risposta, lasciando intendere che Berna non intende subire passivamente le conseguenze della politica tedesca.
Dal Lussemburgo, il Ministro dell’Interno Léon Gloden ha espresso preoccupazione soprattutto per i circa 52.000 pendolari che ogni giorno si recano nel Granducato dalla Germania, chiedendo di evitare “inutili perturbazioni” al traffico transfrontaliero.
Persino l’Austria, spesso allineata con la Germania su posizioni rigorose in materia di immigrazione, ha mostrato freddezza. Il Ministero dell’Interno di Vienna ha ribadito che si aspetta il pieno rispetto del diritto europeo da parte di Berlino e che “misure di fatto che se ne discostino non saranno accettate”. Pur aprendo a un rafforzamento coordinato dei controlli a livello UE, l’Austria ha chiarito di non gradire fughe in avanti unilaterali.
La pretesa di Merz di non stare conducendo un “Alleingang” (un’azione solitaria) perché i vicini sono stati “pienamente informati” suona, alla luce di queste reazioni, piuttosto debole. Informare non equivale a concordare, e la percezione diffusa tra i partner europei è proprio quella di una Germania che agisce per conto proprio, scaricando parte delle conseguenze sugli altri.

La Linea del Fronte: La Polizia tra Ordini e Dubbi Legali
E chi si trova a dover implementare materialmente questa controversa politica? Gli agenti della Bundespolizei, la polizia federale tedesca, schierati ai confini. Qui emerge un’altra dissonanza, riportata con enfasi da alcuni organi di stampa tedeschi che hanno raccolto le voci dei sindacati di polizia. Mentre il Cancelliere Merz a Bruxelles cercava di minimizzare, paragonando i controlli a quelli, più blandi, attuati durante gli Europei di calcio, i rappresentanti sindacali come Andreas Roßkopf (GdP) e Heiko Teggatz (DPolG) dipingevano un quadro molto diverso e più severo.
Secondo le loro dichiarazioni, la direttiva ricevuta dal Ministero dell’Interno è chiara e vincolante: “I nostri colleghi respingeranno ogni richiedente asilo e protezione”, con le uniche eccezioni previste per donne incinte, malati gravi e minori non accompagnati. Non si tratta quindi di controlli a campione o di una selezione caso per caso, ma di una prassi di respingimento generalizzata, applicata fino a nuovo ordine o, come sottolineano i sindacati stessi, “fino a quando un tribunale non deciderà diversamente”.
Questa situazione mette gli agenti in una posizione scomoda e potenzialmente rischiosa. Consapevoli dei dubbi sulla legalità della misura, i sindacati hanno chiesto garanzie esplicite al Ministero: se la giustizia dovesse in seguito dichiarare illegittima la sospensione delle norme europee e l’applicazione della legge nazionale in questo modo, gli agenti che hanno eseguito gli ordini non dovranno essere perseguiti. La responsabilità, insistono, deve ricadere “unicamente sul Ministero dell’Interno”. Una richiesta che evidenzia la tensione palpabile tra l’esecuzione di un ordine politico e la consapevolezza di muoversi su un terreno giuridico minato.

Oltre le Notizie: Implicazioni Profonde e Domande Aperte
La decisione tedesca di chiudere le frontiere in questo modo non è solo una notizia di cronaca, ma un evento che solleva questioni fondamentali per il futuro dell’Europa.
Innanzitutto, è un colpo potenzialmente durissimo per l’area Schengen. Se il paese più grande e centrale dell’Unione reintroduce controlli sistematici e respingimenti alle sue frontiere interne, giustificandoli con una clausola di emergenza nazionale, quale messaggio invia agli altri Stati membri? Si rischia di innescare una spirale di misure unilaterali che potrebbero, pezzo dopo pezzo, smantellare uno dei pilastri più visibili e apprezzati dell’integrazione europea.
In secondo luogo, mette in discussione la solidarietà europea in materia di asilo. La Germania, che per anni sotto Angela Merkel aveva tenuto una linea relativamente aperta (pur tra mille difficoltà), sembra ora adottare la logica del “si salvi chi può”, scaricando di fatto la pressione sui paesi di primo arrivo e sui vicini diretti. Questo approccio rischia di esacerbare le tensioni già esistenti e di rendere ancora più difficile trovare una soluzione comune e sostenibile alla gestione dei flussi migratori.
In terzo luogo, c’è la dimensione umana, spesso messa in ombra dai dibattiti politici e legali. Cosa succede alle persone – uomini, donne, famiglie, bambini – che vengono respinte al confine tedesco? Dove vanno? Tornano nel paese vicino, che magari a sua volta cercherà di respingerle altrove? Finiscono in un limbo legale e materiale, esposte a ulteriori rischi e vulnerabilità? La chiusura delle frontiere, anche se giustificata con ragioni di sicurezza, ha sempre un costo umano elevato.
Infine, c’è il calcolo politico interno. Questa mossa è davvero dettata solo da una situazione emergenziale oggettiva, o risponde anche a una strategia per recuperare consensi a destra, per mostrarsi “forti” sull’immigrazione in un clima politico polarizzato? Ignorare i dati sugli arrivi in calo per giustificare misure draconiane solleva il sospetto che la politica stia prevalendo sull’analisi razionale dei fatti.

Conclusione: Un Bivio per la Germania e per l’Europa
La Germania si trova a un bivio. La scelta di attuare una chiusura delle frontiere così netta per i richiedenti asilo rappresenta una rottura significativa con il passato e un’aperta sfida alle norme e alle prassi consolidate in Europa. È una politica che promette soluzioni rapide a problemi complessi, ma che porta con sé un carico enorme di controversie legali, tensioni diplomatiche e costi umani.
Berlino sta scommettendo sulla propria interpretazione del diritto e sulla capacità di sostenere la pressione interna ed esterna, sperando forse che il tempo e la riduzione dei flussi le diano ragione. Ma la strada è irta di ostacoli: le probabili battaglie legali a Lussemburgo, la crescente irritazione dei paesi vicini, le critiche delle organizzazioni umanitarie e le stesse preoccupazioni espresse dalle forze di polizia chiamate ad applicare le nuove regole.
Quello che accadrà nei prossimi mesi sarà cruciale non solo per la Germania, ma per l’intero progetto europeo. Assisteremo a un’ulteriore frammentazione delle politiche migratorie, a un rafforzamento delle logiche nazionali a scapito della cooperazione, o si riuscirà a trovare un nuovo equilibrio tra controllo delle frontiere, rispetto del diritto internazionale e solidarietà? La chiusura frontiere Germania è forse solo il sintomo più evidente di una crisi più profonda che interroga l’Europa sul suo futuro e sui valori che intende davvero difendere.