C’era una volta una Germania che, dopo due guerre mondiali, aveva promesso a sé stessa — e al mondo — di non cedere più alla tentazione della forza militare. Oggi, però, il discorso è cambiato. Sottovoce, ma con sempre più decisione, si parla di “kriegstüchtigkeit”, ovvero di “idoneità alla guerra”. E a farlo non sono solo i generali.
Politici, giornalisti, medici: un intero ecosistema culturale e mediatico sembra riscoprire il linguaggio della guerra. Ma è davvero difesa, o siamo di fronte a una nuova forma di propaganda bellica? Quella che non ti ordina, ma ti convince. Quella che non urla, ma insinua.

La guerra comincia dalle parole
Una delle trasformazioni più evidenti è il cambiamento del linguaggio pubblico. I titoli dei quotidiani non lasciano spazio a dubbi: “Deutschland macht mobil”, “Noch vier Jahre bis zum großen Krieg”. Frasi che evocano scenari da anni ’30 e che un tempo sarebbero state bollate come allarmismo o satira.
Oggi, invece, vengono presentate con tono quasi neutro, come parte del dibattito legittimo. Il ministro della Difesa, Boris Pistorius, parla apertamente della necessità di una Bundeswehr “kriegstüchtig”. E nessuno sembra sobbalzare. Ma c’è da chiedersi: quando è diventato normale parlare di guerra così, come se fosse un aggiornamento software da installare?

Da esercito difettoso a forza da 500 miliardi
Per anni, la Bundeswehr è stata lo zimbello d’Europa. Aerei che non volano, fucili che non sparano, carri armati che non partono. Ma oggi la narrativa si è ribaltata. Non solo si parla di ammodernamento, ma di una vera e propria corsa al riarmo, con un budget che sfiora il mezzo trilione di euro.
Il problema non è solo quanto si spende, ma perché e come se ne parla. L’invasione russa dell’Ucraina, le incertezze sulla NATO, il possibile ritorno di Trump: tutto viene usato per costruire un senso di urgenza. Di emergenza. Una paura organizzata che giustifica ogni misura, ogni taglio, ogni rinuncia.

La medicina al servizio del panico: il caso Pennig
Il momento in cui capisci che qualcosa non va è quando anche la medicina entra nel gioco. In un’intervista a Die Welt, Dietmar Pennig, segretario generale di due importanti società di traumatologia, descrive senza battere ciglio uno scenario di guerra urbana, con 1.000 feriti al giorno e ospedali civili pronti a diventare campi di battaglia.
Parla di Berlino, Amburgo, Colonia sotto attacco, di ospedali sotterranei ispirati al modello israeliano, di logistica da tempo di guerra. E tutto questo sulla base di simulazioni NATO. Secondo Pennig, la Germania, con 700.000 soldati stranieri sul suo territorio in caso di guerra, diventerebbe automaticamente un bersaglio militare.
Il giornalista Marcus Klöckner sulle nachdenkseiten.de commenta con lucidità amara: “Ha ancora senso parlare di medicina, o siamo già nella logica del conflitto?” E rincara la dose: “Costruire un ospedale di guerra è come proteggere una casa di carta con altri fogli di carta.”
Non è solo questione di strategia: è il sintomo di un cortocircuito culturale, in cui anche chi dovrebbe curare, finisce per pensare secondo la logica del combattimento.

Habermas avverte: chi controlla il potere armato?
In questo clima, la voce del filosofo Jürgen Habermas risuona come un raro appello alla lucidità. In un intervento sulla Süddeutsche Zeitung, sottolinea che sì, l’Europa ha bisogno di maggiore capacità d’azione, anche militare. Ma questo può avvenire solo in un quadro democratico e condiviso.
Il rischio, secondo lui, è che la Germania, già leader economico, diventi anche potenza militare fuori controllo, senza alcun vincolo europeo reale. E a quel punto, tutto l’equilibrio del continente rischierebbe di saltare.
Non è un’opinione ideologica. È una chiamata alla responsabilità: il potere armato, se non controllato politicamente, è una minaccia anche per chi lo possiede.

Quando i media diventano tamburi di guerra
Se c’è un altro attore che ha abbracciato con entusiasmo questa svolta, sono i grandi media. Titoli sensazionalistici, retorica da fronte interno, scarsa distanza critica. Spesso, più attivisti che cronisti.
La Frankfurter Allgemeine Zeitung arriva a usare espressioni che, come fa notare Klöckner, richiamano direttamente la propaganda nazista degli anni ’30. Forse inconsapevolmente, ma l’effetto resta lo stesso: creare una narrazione bellicista che anestetizza ogni riflessione.
E quando un giornale si dimentica della storia del proprio Paese, cosa resta del suo ruolo democratico?

Paura + responsabilità = consenso
La forza della propaganda bellica di oggi non sta nell’imposizione, ma nella formula perfetta: paura + responsabilità = consenso.
Ci viene detto: “Non vogliamo la guerra, ma dobbiamo prepararci.” E allora si accetta tutto: i tagli alla sanità, l’aumento delle spese militari, il ritorno della leva, gli ospedali blindati. Chi si oppone? Quasi nessuno. E chi lo fa, viene subito accusato di essere naiv, ingenuo. O peggio, putinversteher – uno che “capisce Putin”.
La vera censura oggi è l’autocensura. La paura di dire: “Fermi tutti. Ma è davvero questa la strada giusta?”

Fermarsi prima che sia troppo tardi
Il caso dell’ospedale sotterraneo a Colonia è emblematico. Un progetto pensato per fronteggiare un attacco diretto. Ma davvero la Germania è sotto minaccia imminente? Davvero c’è bisogno di prepararsi a combattere una guerra dentro le città?
Oppure abbiamo lasciato che la logica del peggio si impadronisse della politica?
Forse è tempo di rimettere le cose in discussione. Di ricordare che costruire ospedali è nobile, ma farlo per una guerra ipotetica — e forse impossibile da vincere — è una sconfitta della ragione.
Come dice Klöckner: “Costruite pace, non ospedali per la guerra”.
Perché la vera forza di una democrazia non è prepararsi alla guerra, ma avere il coraggio di impedirla.